martedì 23 novembre 2010

INTERVISTA A SUALZO... PARTE SECONDA

Ed ecco le ultime  domande - e risposte - dell'intervista a Sualzo che, vi ricordo è uscita sul numero 11/2010 di Satura (www.satura.it). Buona lettura! 

Elia dice “la poesia mi attira per la musica che porta con sé” e fra le citazioni che aprono i capitoli del libro c’è un’alta percentuale di poeti. È evidente che per te il rapporto è molto forte. Anche il fumetto può essere poetico. Ma musicale? Tecnicamente, intendo, non potendosi far sentire.
Nella mia storia la poesia è venuta proprio in soccorso di questa mancanza di audio del fumetto. Attraverso la cosa più simile alla musica che si possa leggere su carta, ho cercato di evocare il ritmo e le armonie che mi era impossibile riprodurre con la matita. Poi è chiaro che il lettore mi debba dare una mano mettendoci del suo.

Il tuo tratto è pulito, senza sbavature, con un’ottima resa scenografica. Ti consideri un esponente della ligne claire?
Ho amato molto la ligne claire, la sua evoluzione e, perché no, negazione che ha avuto negli autori francesi che ricordavo prima.

Il fumetto e i nuovi media: quale futuro ha, secondo te, questo futuro? E sempre per rimanere in tema, il linguaggio del fumetto come deve – se deve - cambiare?
Credo che il fumetto possa e debba affacciarsi e “abitare” altri media, compresi quelli di ultima generazione (io sono un gran frequentatore di blog fumettistici, per esempio), in quanto parte della nostra vita culturale, ma che rimanga profondamente legato al suo supporto naturale.
Questo almeno per me. Il linguaggio del fumetto sta cambiando di continuo, senza cancellare ciò che c’era prima semplicemente fa convivere (come il jazz del resto) nuovi e vecchi approcci senza troppi conflitti, a parer mio.

Autobiografia: la storia di Elia è la tua storia. Quanto è facile raccontare se stessi?
Raccontare se stessi ha la facilità di raccontare una cosa che si conosce molto bene e al tempo stesso la difficoltà di accettare di passare sotto la lente tutte le cose che non ti piacciono di te stesso. Io devo dire che ho risolto concedendomi dei piccoli “tradimenti” alla storia dove lo ritenevo utile al libro. Come dico sempre: le parti più improbabili sono reali, le altre me le sono dovute inventare.

A cosa stai lavorando adesso? Puoi darci qualche indizio? Magari una citazione di apertura...
In questo momento è troppo presto per poter dire qualcosa. Ma sto lavorando a una storia che parte da questa citazione di Giorgio Caproni:

“Apriva una campana la mattina,
ma era già tardi, tardi.
E io ero alla guerra senza ripararmi”.
Fra un anno mi spiegherò meglio.

Un’ultima domanda: nella postfazione al tuo libro dici che anche la tua trama ha cambiato rotta. L’improvvisazione è anche il segreto di una buona storia?
Senza dubbio. Come potrei vantarmi di “contenere moltitudini” se non le lasciassi prendere il sopravvento proprio quando scrivo?

giovedì 21 ottobre 2010

L'intervista - SUALZO

Come anticipato prima dell'estate, ecco l'intervista realizzata per il numero 11/2010 della rivista "Satura".
Buona lettura!

THE MELODY AT NIGHT, WITH YOU:
SUALZO, L'IMPROVVISATORE
di Manuela Capelli




Quanti anni ci vogliono per scrivere un fumetto? O per studiare il sax? E per diventare famosi, avere la propria occasione di lasciare un segno nel mondo? Ma soprattutto: è importante davvero? La storia di Elia
Sabaz, “l’improvvisatore” del titolo, corre su binari paralleli con quella del suo autore, Sualzo, Antonio Vincenti all’anagrafe. Naturalmente perché si tratta di una sorta di autobiografia. Elia fa il maestro di
scuola, è un trentenne scapolo e insoddisfatto, alla disperata ricerca di 10 minuti di gloria in compagnia del suo amato sax. Capitolo dopo capitolo, perché qui il romanzo viene fuori anche nella forma, Elia si
fa seguire con passione nel suo viaggio alla scoperta di qualcosa di più rilevante. Complici un tratto pulito e una scrittura poetica, perché in fondo è questo che Sualzo fa: non solo disegna, ma scrive bene. Come
tutti i veri lettori. E che lui lo sia è chiaro: per le citazioni che antepone a ogni capitolo, per la resa strutturale dei personaggi, per l’accurata scelta delle parole.

È molto francese questa graphic novel, che oltretutto come spesso succede in questo campo è stata pubblicata prima in Francia e poi in Italia: nel tratto, in una certa caratterizzazione dei volti, nelle atmosfere. È anche estremamente cinematografica questa graphic novel: nella resa dei colori innanzitutto, ma anche nella storia, che potrebbe inserirsi nel filone calcato da Sliding doors e The family man. Solo che il gioco qui non è più cosa-sarebbe-successo-se…con cui suddetta filmografia ha già iniziato da anni
ad auto-citarsi. Qui alla domanda si risponde con i fatti invece che con vacue supposizioni che lasciano sempre, in fondo e comunque, un po’ di amaro in bocca.

E la risposta è un sospiro di sollievo. La gloria non è tutto e la vita, se sai improvvisare, può riservare magnifiche sorprese. Come un’e-mail di Gipi – il maestro cui hai lasciato il tuo primo romanzo da leggere - da utilizzare come prefazione, o come il Prix Meilleur scenario nel 2009, il premio per la miglior sceneggiatura del Festi’BD di Moulins e la candidatura per il premio Micheluzzi come miglior fumetto al Comicon di Napoli 2010. È, infine, favolosamente romantica, questa graphic novel. Non solo perché Sualzo
fa del sogno il vero protagonista (bilanciandolo sapientemente con una piacevole ironia), ma perché utilizza le
poesie della moglie, Silvia Vecchini, per corredare il suo testo. Del resto per lui solo la famiglia è importante quanto il jazz: come Keith Jarrett, rinato a nuova vita dedica alla moglie “My melody at night, with you”, si può dire che anche per la nascita del Sualzo fumettista si deve ringraziare una donna. Almeno sulla
carta: ed è proprio sulle note di Jarrett che, nell’Improvvisatore, Elia e Giuditta – Silvia Vecchini in panni di inchiostro - si fondono artisticamente.

Partiamo dagli esordi. Com’è nato il Sualzo fumettista?
Il fumetto è una passione che mi accompagna da una vita,mami sono deciso abbastanza tardi a provarci seriamente. A parte una breve parentesi nei primi anni 90 con un gruppo legato alla satira (sono stato uno dei componenti del manipolo di giovani scapestrati allevati dal grande e rimpianto Angese), direi che il Sualzo fumettista nasce nel 2000, proprio in coincidenza al mio trasferimento al lago Trasimeno, che del Sualzo inteso come animale è l’habitat naturale (“Sualzo” nel nostro dialetto lacustre indica l’uccello acquatico “Svasso”).

Quali sono le principali influenze nel tuo lavoro? In campo letterario e cinematografico, per esempio. Le citazioni nel libro ti direbbero lettore onnivoro: da Goethe a Pessoa a Bloch (Arthur, l’autore statunitense famoso per la Legge di Murphy). Mentre al cinema, ne “L’improvvisatore” danno Annie, di Woody Allen…
Sì, credo di essere un lettore onnivoro con una speciale predilezione per la mescolanza tra alto e basso, cosa che cerco sempre di riprodurre anche nelle cose che scrivo. Dal punto di vista fumettistico sono stato folgorato da tutta la “nouvelle vague” francese affacciatasi nel decennio scorso, Dupuy e Berberian in testa; sia dal punto di vista grafico sia per l’approccio alla storia. Profondo e lieve allo stesso tempo, intenso ma capace, quando serve, di non prendersi troppo sul serio. Alto e basso insomma, come piace a me. Le influenze sono comunque moltissime e continue, dalla letteratura, dal cinema, dalla musica, dalla poesia, tutto entra nel mio modo di raccontare le storie.

Per il dizionario Zanichelli “improvvisare” significa “tenere un discorso, comporre versi,musica per immediata ispirazione, senza studio o preparazione”. Questa definizione unisce oratoria, poesia e musica. Dando per assunto che siano arti in cui ci si deve saper destreggiare. Bisogna aggiungervi il fumetto? O la vita in generale?
Ecco, tanto per non prendersi troppo sul serio, mi sentirei di contestare la definizione dello Zanichelli... non è affatto vero che in musica (ma credo anche nelle altre arti) si possa improvvisare senza studio o preparazione. Anzi, l’improvvisazione ti obbliga a studiare moltissimo perchè tu possa essere in grado di scegliere le note da usare e quando, senza invece essere obbligato dai tuoi limiti a ripetere sempre le stesse cose. Pensandola così, credo proprio che si possa estendere questa visione al fumetto e alla vita in generale.

Una delle cose che mi sono piaciute di più del tuo romanzo è che si tratta – nonostante i tentativi iniziali di Elia - di un “elogio della normalità”: una vita semplice, che proprio per questo sottolinea come tutte possano essere ricche. Il tuo protagonista è un eroe del quotidiano. È sufficiente saper improvvisare?
Come dicevo prima, ci vuole una grande preparazione per improvvisare, poi è logico che nel libro c’è il gioco di parole tra questa accezione e quella, più condivisa, di “improvvisare” come quasi brancolare tra cose sconosciute nella speranza di venirne a capo. Il mio “eroe del quotidiano” come lo chiami tu si rende conto che sta oscillando tra questi due aspetti, e si rende conto che crescere un po’, impegnarsi di più, non vuol dire rinunciare all’improvvisazione comemodo di essere ma, al contrario, significa portarla ad un livello superiore e sicuramente più soddisfacente.



Passiamo alla tecnica. Scrivi nel tuo blog: “non so fare le scene notturne. O meglio, non riescomi sembrano sempre o troppo buie o troppo luminose” ma ne “L’improvvisatore” ce ne sono moltissime, che per altro sono state commentate da un lettore francese come un’ottima traduzione dell’ambiente. Erano una sorta di tua esercitazione?
Quella frase era riferita alla mia attività parallela di illustratore acquarellista. Quel mezzo è una costante camminata sul filo, una sfida continua che non ammette errori o ripensamenti. Se non temessi di ripetermi fino alla nausea direi che è la cosa più simile all’improvvisazione così come l’ho descritta sopra. Invece per “L’improvvisatore” ho utilizzato una tecnica di colorazione digitale. Per una serie di motivi che vanno dalla velocità (era il mio primo libro e la paura di “rimanerci sotto” era alta) alla possibilità di essere aiutato da collaboratori, che si riconduce immediatamente al primo motivo. Detto questo è vero che il mio assurdo carattere mi porta a misurarmi quasi esclusivamente con le cose che io ritengo di non sapere fare o di non sapere fare bene. Se c’è un buono psicanalista si faccia avanti, grazie.

Fra le altre cose, realizzi illustrazioni, per le quali – leggo sempre nel tuo blog – hai ormai acquisito una sorta di tecnica, che nel fumetto invece non hai ancora ottenuto: in cosa consiste e perché ti è più difficile per il fumetto?
Per il motivo appena detto. Credo che il fumetto non mi sia così congeniale come l’illustrazione e quindi ci sbatto contro continuamente, come la mosca di Pazienza sulla lampadina. Sento di aver appena cominciato il discorso e la tecnica è in continua mutazione. Mi lascio suggestionare da molte cose e piango lacrime amarissime su quello fatto appena ieri. Trovo soluzioni definitive che durano lo spazio di un mattino. Ricomincio da capo (le prime sei tavole dell’Improvvisatore sono state disegnate 5 volte con tecniche sempre differenti), mi pento,
strepito. Mi diverto molto.

I dialoghi sono perfettamente calibrati, non diluiti in periodi monotoni, non concisi in frasi spezzate. La scelta delle parole è fondamentale sempre. Immagino che lo sia a maggior ragione per un appassionato di poesia. A che punto arrivano i dialoghi nel tuo percorso di lavorazione e come lo influenzano?
La poesia è un punto di riferimento importante nella mia scrittura. Forma e sostanza almassimo livello (la poesia, non la mia scrittura). Quando scrivo, i dialoghi arrivano prima di tutto il resto. Ho già detto altrove che la storia comincia quando comincio a “sentire le voci”. I personaggi mi si presentano solo attraverso la loro voce, e io cerco di lasciarli parlate tra di loro. Solo dopo un po’ comincio ad appuntare i dialoghi, ma solo quelli. Per molto tempo le mie storie sono solo personaggi che si parlano, la drammaturgia, se c’è, scaturisce tutta fuori dalle loro parole e dai loro silenzi.
Nella prima fase anche quando c’è una scena in cui qualche personaggio non parla, non scrivo nulla di quello che fa, scrivo solo che sta zitto.

...L'intervista continua sul numero 11/2010 di Satura e prossimamente su questo blog.
A presto,
Manuela

sabato 16 ottobre 2010

Sfogliando... Made in India



Avete figli, nipotini, qualcuno con cui giocare?
Perché è finalmente uscito MADE IN INDIA, il libro edito dalla Sagep che vi illustrerà come far divertire
i vostri piccoli con alcuni simpatici lavoretti a base di carta, colori... e fantasia!

Gli stessi lavoretti che l'autrice, Elisa Rosa, ha realizzato insieme ai bambini della Cathedral Free Primary School di Chennai, durante gli anni trascorsi con la sua famiglia nell'India del sud.

Un'esperienza che ha dato molto: a Elisa e ai bambini, e che adesso ha la possibilità di proseguire con questo libro, perché i proventi verranno interamente devoluti alla scuola (http://thechildrenofcathedral.blog.fr/).

Made in India, di Elisa Rosa, Ed. Sagep (2010) - 64 pagine, 15 €

domenica 10 ottobre 2010

Screen/ing - Departures

La storia di Daigo, violoncellista disoccupato che torna al suo paese d'origine per cercare un nuovo lavoro e ritrova se stesso facendo i conti col passato.
In tre parole, la trama di Departures - premio Oscar come miglior film straniero nel 2008 - si potrebbe riassumere così, ma in realtà la bellezza di questo film risiede proprio nell'inusuale rappresentazione di questo classico rito di passaggio che è la ricerca di sé.

Il nuovo lavoro di Daigo in un'agenzia funebre, infatti, sottolinea - in modo assolutamente piacevole visto il tema - l'importanza di una partenza serena: per chi muore, per chi resta, per chi deve ricostruirsi una vita.
E lo fa attraverso la sacra rappresentazione della tradizione giapponese dell'ultimo saluto ai defunti, un rituale composto ed elegante come solo i giapponesi sanno essere, che non fa ricorso né al macabro né all'ironia spesso utilizzati per affrontare questo tema.

Un film poetico e per nulla scontato: insomma, imperdibile.


E visto che sono in tema di "neo"classici, a chi non li avesse ancora letti consiglio di correre a tuffarsi fra le pagine di Pastorale americana (P. Roth, Einaudi) e La versione di Barney (M. Richler, Adelphi).

domenica 1 agosto 2010

In vacanza con... L’improvvisatore di Sualzo

In vacanza i pensieri prendono il volo. La mente – più libera - inizia a giocare con le proprie idee, le proprie aspettative, fantasticando di metterle in atto seriamente non appena le foglie ricominceranno a coprire l’asfalto. Per questo in vacanza il compagno ideale è un amico che, come noi, ami sognare ad occhi aperti: per questo, il compagno ideale è “L’improvvisatore” di Sualzo, storia semi-autobiografica di un uomo e di un sogno. Elia vorrebbe diventare un famoso suonatore di jazz, ma chissà se questa è anche la vita che il destino vorrebbe per lui… forse no, ma l’importante è saper improvvisare.

Un libro incantevole (come già fa intuire il trailer... ), cui non basta il poco tempo, fatto a volte di soli minuti, che gli si può concedere d’inverno  prima di andare a dormire, o sul treno andando al lavoro o ancora, in una frettolosa pausa pranzo: perché non è questo il tempo che si concederebbe a una poesia. E questa graphic novel, che fa ridere e commuovere al contempo, merita di essere letta con la stessa concentrazione di un’opera in versi.

Al Festival di Lucca, l’anno scorso, Sualzo autografava le copie del suo romanzo insieme a suo figlio. È lì che ho iniziato a pensare di intervistarlo per la rivista con cui collaboro e un mese fa è successo. Gli ho chiesto ad esempio…

Quali sono le principali influenze nel tuo lavoro? In campo letterario e cinematografico, per esempio. Le citazioni nel libro ti direbbero lettore onnivoro: da Goethe a Pessoa a Bloch (Arthur, l’autore statunitense famoso per la Legge di Murphy). Mentre al cinema, ne “L’improvvisatore” danno Annie di Woody Allen…

Per il dizionario Zanichelli “improvvisare” significa “tenere un discorso, comporre versi, musica per immediata ispirazione, senza studio o preparazione”. Questa definizione unisce oratoria, poesia e musica. Dando per assunto che siano arti in cui ci si deve saper destreggiare. Bisogna aggiungervi il fumetto? O la vita in generale?

Per sapere cosa mi ha risposto a queste e alle altre domande dovrete aspettare la fine di settembre.
Nel frattempo, non perdetevi “L’improvvisatore” (Sualzo, 2009, Ed. Rizzoli Lizard).



"Questo post partecipa al contest di Rizzoli Lizard - Il Fumetto da portare in Vacanza".

lunedì 12 luglio 2010

L'intervista - VANNA VINCI

RITI DI PASSAGGIO: IL MONDO A BIVI DI VANNA VINCI
di Manuela Capelli


“Riti di passaggio” è un libro di William Golding che ho letto all’epoca dell’Università, ed è il titolo che mi è venuto subito in mente per descrivere il complesso universo di storie di Vanna Vinci, autrice di fumetti dalla
carriera ventennale. Sia perché ricalcare il titolo di un’opera famosa per le graphic novel è una delle peculiarità di Vanna, sia perché ogni sua opera narrativa è ambientata durante uno di questi riti che l’antropologia definisce come gli inevitabili cambiamenti della vita di ognuno, quelle tappe fondamentali che permettono di crescere. È in quest’ottica che si leggono le storie di Vanna e delle sue protagoniste, giovani donne – confuse e infelici – che si trovano ad affrontare momenti di transizione sia mentali che fisici. Come l’autrice, infatti, cagliaritana di nascita ma bolognese d’adozione, le varie Aida, Agnese, Rosa, Gilla si spostano dalla propria città natale verso nuove mete che le accoglieranno per motivi di studio o di cuore. Perché quello che Vanna vuole indagare è l’animo umano. E, in particolare, tutti quei dubbi da cui si viene spesso assaliti, a volte schiacciati, a volte spronati. Come nella sua ultima opera, “Gatti neri Cani Bianchi” in cui Gilla, trasferitasi a Parigi per scoprire se nuovi studi, nuove persone o una nuova città potranno dare un senso alla sua vita, riuscirà a fare il punto su se stessa – e neanche poi completamente - solo grazie all’incontro di tre fantasmi. Non sono sufficienti le persone vive, reali, concrete, a indicarci la via? No, pare essere la risposta. Le strade da intraprendere nascono dentro noi stessi, magari aiutati da figure che solo la nostra mente è capace – o crede – di vedere. Al punto che i fantasmi compaiono come presenza ricorrente, così come fanno fugaci comparse i vampiri – in “L’altra parte”, dove una giovane umana e un diafano vampiro cercano il lato diverso da sé - e l’alchimia. Vanna ama il buio, quindi, l’oscuro, reso anche graficamente da un potente alternarsi di bianco e nero. Ma Vanna ama anche la luce. Svelando una doppia personalità: di notte (o forse di giorno) profonda e malinconica, di giorno (o forse di notte) ironica e mordace. Entrambe, comunque, filosofiche come la “Bambina” che le ha dato gli onori della fama.
“Nata casualmente su un tovagliolino in un pub del dopocena”, la Bambina filosofica inizia ad aggirarsi
dapprima fra le pagine di Mondo Naif (la rivista d’autore di Kappa Edizioni) per poi spiccare il volo, e ampliare la parlantina, su volumi tutti suoi. Laddove infatti le sue prime parole ricalcavano famose citazioni di personaggi del calibro di Totò e Karl Kraus, nelle sue strisce più celebri la Bambina si mostra appieno, rivelandosi effettivamente pessimista, ma anche tanto scorbutica (“E se prendessimo in considerazione l’idea di un precettore?” pur di non vedere i compagni di scuola) quanto fashion victim (non faccio un passo senza un paio di sandali di Gucci). Due aspetti, il buio e la luce, dicevamo diametralmente opposti. Due aspetti che, come tutti gli opposti, fusi creano un unicum estremamente interessante. Come insegna il Giappone (e Vanna Vinci cura l’editing di “One Piece”, il manga di EiichiroOda pubblicato in Italia da Star Comics).O come l’unione dei due stili che hanno caratterizzato la sua formazione artistica: un ibrido di manga e Pratt (“avevo letto le storie brevi di Corto Maltese... mi avevano talmente impressionato che ho passato un anno solo a copiare le facce dei personaggi, per imparare come erano fatte”, leggo in un’intervista).
Senza Corto Maltese, oggi non ci sarebbe Vanna Vinci. Ma neanche senza gli occhioni squadrati di Lady Oscar. Due muse – cui si possono aggiungere anche Ronald Searle “il disegnatore che preferisce in assoluto”, Crepax e Battaglia – che conferiscono quel tratto fra il nipponico e l’italiano che è il suo segno distintivo, sempre puro e pulito, costituto da “almeno due o tre linee sovrapposte. Il tratto, anche se cambia, secondo me all’origine è sempre lo stesso, graffiato e indurito emultiplo”. Un tratto che, ovviamente, con il tempo subisce delle variazioni, cresce insieme alla sua mano, dando vita, sull’impulso del momento e mai in modo programmatico, a scene zeppe di oggetti prima, poi a vignette spoglie e poi ancora su sfondi pieni e ricchi. Ricchi come il mondo interiore che mira a rappresentare.
Partiamo dalla fine. Nel tuo ultimo romanzo la protagonista afferma: “Sradicata, persa.. ecco come mi sento…”. La protagonista è, di nuovo, una ragazza al bivio. È davvero solo una condizione tipica della giovinezza? O non si smette mai di sentirsi in un bivio?
Non lo so... Ma spero che non si smetta mai di nutrire dubbi e sentirsi imperfetti. Certo credo che in una condizione di passaggio da una fase adolescenziale e quella adulta, questa sensazione sia più evidente, più espressa. Nel caso di Cicci, che ha varato i sessanta, la sensazione presumo sia uguale, anzi, di maggiore sconcerto... Ma in sessant’anni lei avrà imparato a fare almeno in parte, finta di nulla, a non dare a vedere di essere spaventata... In ogni caso mi interessano i riti di passaggio e i personaggi che attraversano queste fasi. Mi piace aspettarmi qualcosa di inconsueto e irrazionale da parte dei personaggi, che facciano qualcosa che non farebbero in una condizione normale o stabile.
Sempre in “Gatti neri, cani bianchi”, si leggono sia le parole di Beckett (tratte da “L’ultimo nastro di Krapp”): “Forse i miei anni migliori sono finiti. (…) Ma no, non li rivorrei indietro” sia la frase (da un 50enne, ndr): “e sai qual è la cosa più assurda? È che se non ti guardi allo specchio, ti senti ancora come quando avevi vent’anni”. Tu in quale ti identifichi di più?
In nessuna delle due. Senz’altro non mi sento come quando avevo vent’anni, né mi vedo così, né sono  così... Ma nemmeno credo che i miei anni migliori siano finiti. Mi sento cresciuta, ma in movimento, in sviluppo... Come un bruco... Mi spunteranno alla fine le ali? E nel caso... Riuscirò a farle stare sotto
le giacche e i cappotti? Sarò farfalla, falena, mosca, zanzara, ape, vespa, gabbiano, piccione o pterodattilo? O gallina?
Dici che “scrivi sempre la stessa storia”: i tuoi romanzi, la tua fantasia sono rivolti piuttosto verso un passato sfumato nei toni del blu, inteso - all’inglese - come malinconia, che verso un futuro potenzialmente roseo?
Sì, ho scritto diverse volte la stessa storia, come molti prima di me… cambiandola, potenziandola, definendola. Ma i miei romanzi parlano sempre del presente, di un lasso di tempo ridotto, di momenti, al
limite delle influenze che il passato può avere sul presente…ma mai del futuro…
Prima di tutto perché io non penso e non ho mai pensato al futuro... Non ci riesco e non ci credo nemmeno... Non ho idea di quello che potrebbe arrivare o succedere... è roba per chiromanti o preveggenti. Se devo mettermi a pensare al futuro, mi leggo i tarocchi, o l’Oracle Belline. Fondamentalmente mi interessa solo il presente, o un futuro molto prossimo, parlo di giorni o settimane... Il passato è una cosa interessante, si può analizzare da diecimila punti di vista e molti episodi, o sensazioni salgono alla superficie molto tempo dopo. È come un baule pieno di roba, e frugarci non è poi tanto male...Del resto il passato è quello che siamo e siamo stati e produce effetti sul presente. Sì, a volte posso sentire della malinconia, ma è una condizione che fa parte del mio dna, è qualcosa di familiare, che conosco...Ma è qualcosa in cui evito di infangarmi.
Quale dei tuoi romanzi metteresti sul podio in un’ipotetica graduatoria? Quale pensi rifletta al meglio le tue doti di narratrice e quale quelle di disegnatrice?
Non so rispondere. Sono tutti “pezzi ‘e core”… L’ultimo è sempre quello che mi pare più evoluto e complesso. Posso dire senz’altro però che Aida al confine è stato un crinale, un punto di maturazione e di passaggio.
I tuoi titoli sono sempre evocativi (Guarda che luna, Doppio sogno, ndr). Anche quest’ultimo è un riferimento a qualche opera in particolare? E da cosa deriva la scelta di instaurare questo gioco con il lettore? Agganciarlo con qualcosa che il suo inconscio riconosce?
La verità è che io sono una vera schiappa coi titoli. Spesso li ho ripresi da opere o da canzoni che mi piacevano. “Gatti neri cani bianchi” è legato alla storia, e anche a un’idea strettamente personale. Io sono
assolutamente scettica e non ho mai visto un fantasma o un’apparizione spettrale, però, a pensarci, se dovessi vedere qualcosa di trascendente e immateriale, credo che si paleserebbe come un gatto nero e
peloso, forse anche un po’ vecchio e spelacchiato o un cane bianco tipo spinone che passa veloce vicino al pavimento andandosene per i fatti suoi... Da qui il titolo. È un po’misterioso, ma del resto i fantasmi lo sono, no?
Vanna Vinci e la città: sembri avere un rapporto privilegiato, nei tuoi romanzi, con l’ambiente urbano. Cosa rappresenta per te? Semplicemente il tuo mondo o anche, secondo te, il maggior crocevia di vite – e di storie - possibile?
Io sono affascinata dalle città, dai paesi, dai villaggi, dagli agglomerati urbani…dal paesaggio prodotto dall’uomo. Sono urbana anche come indole. Non amo molto la campagna…per carità, mi piace, ma la città
è il posto che preferisco. La amo e mi fa paura. Mi ci muovo come se fossi trasparente. Camminare in mezzo alla gente mi fa entrare in contatto con me stessa. Sentirmi sola in mezzo alla gente, nel bene e nel male, è sempre importante per me. È come sentirmi viva anche se nessuno mi conosce. E poi le città sono spesso piene di strati: storici, architettonici, umani, letterari, psicologici… Nella città, nella casa, nel villaggio c’è tutto.Mi piace camminare per le città, e nonmi va di farlo in campagna o montagna. Mi piacciono le foto delle città, gli interni dei cortili, delle case, i negozi, le periferie, anche l’abbandono… mi piace l’umano... Ecco… se devo pensare a qualcosa chemi affascina in un certo qualmodo come l’umano, ma in modo piùmisterioso e remoto…è la terra, la roccia, e il mare. Stare a contatto col granito o la sabbia, vicino a quella enorme massa d’acqua piena di roba, è un’esperienza molto importante per me. Ma sono sarda…
Fantasmi e alchimia: due elementi ricorrenti. Che si inseriscono tra l’altro nella moderna rappresentazione del quotidiano tipica delle tue storie in modo quasi contrastante. Cosa ti affascina dell’occulto?
Devo dire che pur non credendo in niente di occulto, la faccenda mi ha sempre interessato, mi incuriosisce. Ho raccolto un sacco di materiale nel corso degli anni, sempre pensando di usarlo per delle storie. Di fatto, come ho detto, fantasmi non ne ho mai visto. È chiaro che, come tutti gli scettici, ho fifa in certe occasioni.
Ma anche la mente ha parti occulte… Di fatto i fantasmi mi servivano e mi servono, nelle storie, per saltare le generazioni. Far incontrare personaggi vivi con personaggi morti realisticamente sarebbe impossibile da attuare senza l’uso del fantasma o dell’immortalità. Poi, visto che in fin dei conti sono attaccata a terra, i miei fantasmi o i miei immortali sono esseri umani consistenti e materiali come i vivi, ammesso che i vivi lo siano… insomma tra fantasmi o immortali e vivi non ci sono grandi differenze nelle mie storie… Semplicemente i fantasmi, i vampiri o gli immortali hanno qualche segreto in più… Per quanto riguarda l’alchimia, be’, è un tema interessante, l’eterna giovinezza, l’eliminazione delle malattie e della morte… È un tema molto “umano”. È l’unico vero mistero di cui siamo effettivamente a conoscenza e per il quale non abbiamo trovato il rimedio o la spiegazione…L’alchimia è questo, definitivamente…


Non si contano i riferimenti in “Gatti neri, Cani bianchi”: musicali, letterari, architettonici, di moda. Quali influenze trovi imprescindibili nel tuo lavoro?
Mah…io sono un’ossessiva. E poi mi piace cercare…Se inizio una storia cerco tutto il materiale che posso trovare, se posso vado sul posto, se ci sono testi li leggo… Voglio essere completamente immersa
nel brodo dei miei personaggi. Per la musica, poi… la ascolto mentre disegno. A volte rientra nelle pagine da sola, casualmente, perché magari in quel momento, mentre disegno, sto ascoltando quella canzone. Oppure la canzone è un trucco per definire l’atmosfera, per caricarla, per dare un altro dettaglio al lettore. Altre volte è uno scherzo, una componente ironica, oppure un commento alla vignetta o alla sequenza.



Ho letto in qualche intervista che hai la tendenza a non buttare mai via niente e a raccogliere oggetti “come le bestioline del sottobosco che ficcano nelle loro tane di tutto”. La descrizione particolareggiata che fai degli ambienti ne è una conseguenza?
Chissà, è probabile… non ci avevo pensato… Di sicuro ho l’horror vaqui e sono disordinatissima e dedita all’accumulo… però che questa caratteristica, chiamiamola difetto, si ripercuota sui miei disegni… be’, mi sembra interessante e possibile. Ci rifletterò.
Il linguaggio, la scelta delle parole, a che punto entrano in scena, fra le fasi di realizzazione?
Soprattutto visto che sul tuo sito affermi di non scrivere una vera e propria sceneggiatura. Quanto ritieni importante questo aspetto?
L’iter di lavorazione è questo: mi viene l’idea, che di solito è un momento, un fatto, un’atmosfera, poi scrivo una scaletta che correggo e metto a punto, tenendo conto delle pagine che ho a disposizione. Poi scrivo questo lungo trattamento che è un misto di descrizioni di azioni, atmosfere e luoghi e di dialoghi. Qui entrano in gioco le parole. Qui mi occupo di come parlano i personaggi. A volte, spesso, quando comincio a disegnare, il dialogo viene frammentato (ho orrore dei balloon molto pieni o troppo grandi), e spesso trasformato o tagliato o allungato. I dialoghi sono azioni, sono fondamentali quanto le sequenze… Le parole sono discriminanti. Le parole chiariscono, attaccano, obnubilano, disperdono… Correggo le parole fino all’ultimo…
Lasciamo un attimo la parte testuale e passiamo ad altri linguaggi: tu che il computer, leggo, lo usi “solo per scrivere le storie e le mail” in che punto ti poni nella linea tra pittura e fumetto?
Ah…io mi pongo sul fumetto. Non ho mai fatto pittura. Io mi occupo di sequenze. Di racconti disegnati in sequenza, fatti per essere stampati. L’originale è irrilevante. Non me lo immagino incorniciato.
Vanna e il Giappone: che rapporto c’è? Va oltre la pura contaminazione grafica? Il Paese apparentemente tanto formale ma anche estremamente passionale influenza le tue storie? Ovvero, l’ispirazione è anche culturale?
Io sono della generazione che ha visto Goldrake alla scuole medie. Non posso negare l’influenza che il Giappone ha avuto sui miei fumetti e su di me. Ma, a pensarci adesso, credo che quello che ha avuto
più influenza reale, e non solo di fascinazione, sono stati Pratt, Crepax, Searle, Battaglia, Schulz, Salinger, Bernhard… l’Occidente insomma… Poi non posso negare che il cartone animato di Lady Oscar, o alcuni Shojo Manga un po’ vecchi e l’impaginazione libera siano stati per me fondamentali… ma il Giappone
è davvero molto molto lontano… È una cultura complicata e lontanissima. Di cui non so poi molto.
Per concludere, vorrei sapere: qual è la vera personalità di Vanna Vinci? O, per dirla in altri termini, quando viene fuori l’autrice satirica e quando la narratrice malinconica? Si sovrappongono quotidianamente o vengono alimentate da particolari momenti di vita?
Oddio, io non so definire la personalità di Vanna Vinci. I due aspetti si sovrappongono, sono entrambi veri, cioè a tratti autobiografici. Come tutti, a volte sono di umore negro…altre volte sono umoristica, altre sardonica…La vita, gli eventi c’entrano sì e no… Se posso dire una cosa personale: la bambina filosofica è un’autobiografia. Le altre storie pure… Non saprei quale delle due sia quella seria…Certo… la bambina mi assomiglia parecchio…



CENNI DI BIOGRAFIA
Esordisce nel mondo del fumetto nel 1990. Sulla rivista Nova Express pubblica L'altra parte e Doppio sogno. Realizza con Giovanni Mattioli, Guarda che luna, Una casa a Venezia e L'età selvaggia,
vincitore del Premio Romics 2001 come miglior libro di scuola europea.
Pubblica i romanzi a fumetti Ombre, Lillian Browne, Viaggio sentimentale, Aida, Sophia la ragazza aurea e Sophia nella Parigi ermetica e Gatti neri cani bianchi. Come autrice satirica ha realizzato
tre volumi de La Bambina Filosofica.
I suoi libri a fumetti escono in Italia per Kappa edizioni e in Francia per Dargaud. Come illustratrice per ragazzi ha collaborato con Fabbri e Battello a Vapore, fra gli altri. Nel 1999 ha vinto il Premio Yellow Kid come miglior disegnatore italiano e nel 2005 il Gran Guinigi di Lucca Comics come miglior disegnatore.

Tutte le immagini sono di esclusiva proprietà di Vanna Vinci.
L'intervista è uscita sul numero 2/2010 di Satura

mercoledì 23 giugno 2010

La citazione

"Un romanzo non è un'allegoria" dissi verso la fine della lezione. "E' l'esperienza sensoriale di un altro mondo. Se non entrate in quel mondo, se non trattenete il respiro insieme ai personaggi, se non vi lasciate coinvolgere nel loro destino, non arriverete mai a identificarvi con loro, non arriverete mai al cuore del libro. E' così che si legge un romanzo: come se fosse qualcosa da inalare, da tenere nei polmoni. Dunque, cominciate a respirare."
Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran

martedì 1 giugno 2010

Sfogliando...



La sera della partita inter-nonmiricordo invece, ho letto "Il caso del lituano" della scrittrice spagnola Giménez-Bartlett: tre racconti (che di solito non amo ma sono la formula ideale se non sai quando finiranno i festeggiamenti per la coppa...) che vedono una sagace ispettrice risolvere piccoli casi di malavitosa quotidianità battibeccando - come nella miglior tradizione - con la sua spalla. Un'ideale lettura estiva. Soprattutto in vista dei mondiali.

giovedì 6 maggio 2010

INNO - ATTO SECONDO

Correndo sotto i piloni della sopraelevata si sentiva un po’ Al Capone: quante volte aveva visto vecchi film di gangster che si inseguivano mitra al braccio? Anche lui stava scappando, ma da se stesso. Per la prima volta, aveva perso il senso. Era successo pian piano, scendendo sui ciottoli diversi a ogni passo: terrosi in collina, dove aveva scelto di vivere per aprire ogni giorno gli occhi su quel mare infinito, sporchi nei vicoli, con quel mix di pesce e curry nell’aria, lisci e tondi sulla riva cittadina. Poi il lavoro, il divorzio, il lavoro. Il divorzio. Correndo, era arrivato al molo: con un traghetto, sarebbe potuto fuggire lontano. Fu allora che il fiatone si trasformò in un profondo sospiro in grado, oltre che di dargli ossigeno, di sentire. La solita, maledetta, aria. Da cui non poteva neanche pensare di riuscire a staccarsi. La solita, magnifica, Genova. Il suo solo senso.

se lo volete votare...campercitytelling.com

giovedì 22 aprile 2010

Screen/ing

"Io sono l'amore": non vi sto a spiegare come sono finita a vedere questo film, ma il risultato è che mi è piaciuto. Molto. La storia di una passione glaciale, girata senza sbavature e con una fotografia stimolante. Guardatelo! A partire dal trailer.

mercoledì 3 marzo 2010

Cose che sto facendo 2

Ho... quasi finito..? il mio primo libro! Continuo a correggere, ricorreggere e correggere ancora... ma una prima bozza pseudo-definitiva c'è. Sono passata a scrivere il progetto... e poi cercherò un editore... tenete le dita incrociate!

Nel frattempo, è uscita la mia recensione al libro di Sergio Algozzino dedicato a Faber su http://www.lettureliguri.it/, il sito della mia amica Maria Cecilia Averame, altrimenti nota come l'autrice di "101 cose da fare a Genova almeno una volta nella vita": buona lettura!

martedì 23 febbraio 2010

Sfogliando… Piccoli crimini coniugali, di EE Schmitt

È uno dei miei libri preferiti, l’unico che regalo sempre sapendo di non sbagliare: un commedriamma sulla coppia, un mix perfettamente calibrato di irriverente cinismo, battute salaci e irresistibili drammi. Ci sono un Lui e un Lei che rincasano dopo la quindicinale convalescenza di lui, che, dopo un incidente domestico, ha completamente perso la memoria. L’appartamento però non gli ricorda nulla: “Ma lei è sicura di essere mia moglie? Non è che per caso appartiene a un gruppo di vedove che vanno negli ospedali per portarsi a casa degli amnesici?”. Il tono continua così, fresco, leggero e spassoso, fino a quando le prime ombre iniziano a proiettarsi sul tentativo di ricostruzione di quella che appare sempre più come una fittizia famiglia felice. Lei lo dipinge perfetto: marito ideale che riesce a resistere in un negozio di scarpe per signora per anche più di un’ora. Lui però non è convinto: qualcosa stona. Possibile che lei voglia nascondergli qualcosa? E per scoprirlo, confessa: qualcosa ricorda, lei sta mentendo, ma perché? La risposta si rivela a poco a poco: lei è incompresa, frustrata, stanca e spossata, addirittura alcolizzata, mentre il piccolo, pacato interno borghese diventa sempre più angusto e soffocante. Leggendo, le risate degli occhi si alternano alle rughe di riflessione della fronte, perché tutti ritrovano qualcosa di personale in quest’amara ma passionale analisi della vita a due. 15 giorni in ospedale possono ravvivare 15 anni di matrimonio? In quindici anni di vita insieme, cosa si riesce veramente a sapere dell’altro? Domande trite e banali forse, ma che, nella magistrale versione dell’autore francese, fa piacere riporsi… almeno una volta all’anno.

domenica 14 febbraio 2010

Sfogliando... Giorni Felici, di L. Graff

A gennaio, ho letto "Le Donne", l'ultimo libro di Boyle sulla vita di Frank L. Wright, un architetto che ho sempre amato e di cui ho già potuto ammirare il quartiere di Oak Park a Chicago, il Guggenheim Museum di NY, la celeberrima casa sulla cascata. Boyle riesce a dipingere la psicologia dei personaggi in modo impeccabile, cosicché le oltre 400 pagine scorrono piuttosto velocemente. Subito dopo ho cmq sentito il bisogno di concedermi un testo leggero, leggerissimo, in tutti i sensi - "giorni felici" di Laurent Graff. L'autore francese, come indica il sottotitolo, celebra un "ironico e poetico inno alla vita"... che si legge in poche ore e si dimentica in fretta.
C'è però un paragrafo che voglio segnalare:
"Mi sono sempre piaciute le panchine. Sono l'immagine di un distacco, il luogo di una presa di distanza, di una tranquilla emarginazione sull'orlo del mondo. Rappresentano un punto di osservazione privilegiato, un rifugio pronto, uno slargo a lato del sentiero per coloro che sanno fermarsi. (...) Un uomo su una panchina non appartiene più alla realtà, o se ne distacca. Quel semplice scarto gli conferisce lo status di poeta e gli offre una visione allargata."
E ora torno ad ammirare la splendida mela di will eisner...


"Le donne" - T.C. Boyle, Ed. Feltrinelli, collana "I narratori"
"giorni felici" - L. Graff, Salani editore
"New York" - Will Eisner, Einaudi Stile libero Extra

martedì 9 febbraio 2010

cose che sto facendo

Attendo "M'illumino di meno" con un progetto dedicato...
di cui spero di riuscire a postare un'anteprima in concomitanza con l'evento.
Nel frattempo, preparo l'intervista alla bravissima Vanna Vinci - per chi non la conoscesse http://www.vannavinci.it/ - per il prossimo numero di Satura. E proseguo il mio corso di fotografia: vedrete i risultati!
Stay tuned!

venerdì 29 gennaio 2010

cose che ho fatto...


Per i disegni, in ordine alfabetico, di Giorgio Cavazzano, Massimo De Vita, Luciano Gatto, Marco Meloni, Ottavio Panaro, Giampaolo Soldati... L'elenco completo lo trovate qui!

Copyright Immagini The Walt Disney Company Spa

martedì 12 gennaio 2010

L'intervista - SERGIO ALGOZZINO
























SERGIO ALGOZZINO: ANDANTE, CON BRIO
di Manuela Capelli


(Satura - trimestrale di arte, letteratura, spettacolo, N° 8/2009 www.satura.it/)


Non può prescindere da un riferimento musicale un titolo su Sergio Algozzino, fumettista (e non disegnatore di fumetti!) che, letterariamente, orchestra ogni sua vignetta. Fil rouge della sua produzione, la musica entra ed esce dalle sue opere, mentre lui si trasforma di volta in volta in ascoltatore, musicista, illustratore di libretti musicali, e creatore di fumetti a tema.
Classe ’78, Algozzino vanta nella sua pur giovane storia, esperienze – significative - da colorista, scrittore e saggista. Nonché, divulgatore.
Negli anni, lo vediamo passare dalle pagine di Fandango (Panini Comics) che lo accolgono nel 2000, alla collaborazione con Red Whale a Spider-Gek, la strip creata insieme a Manlio Mattaliano, pubblicata ogni mese sulle pagine dell’Uomo Ragno (una striscia umoristica che ha per protagonisti le mascotte animali dei supereroi della Marvel). Ma è il 2007 l’anno della svolta, con la pubblicazione – in Francia - del primo libro completo, Pluie d’été per l’editore Les Humanoides Associés, edito in italiano nel 2008 dalla 001 Edizioni, con il titolo “Pioggia
d’estate”.
Lo stesso anno in cui realizza per le edizioni Beccogiallo, l’omaggio a Faber dal titolo “Ballata per De André”, graphic novel dai toni dolceamari, con cui Algozzino rende il suo ultimo, personalissimo saluto al cantautore genovese. Un fumetto che è quasi un testo teatrale, sul cui palco di vignette salgono i protagonisti di alcune delle canzoni più famose di De André: Bocca di rosa, Tito, Marinella, il bombarolo, il giudice, il gorilla. Ma Algozzino è anche… ironia. In Francia, infatti, pubblicamensilmente sulle pagine del Launfest Mag delle edizioni Soleil le strisce di Epictete, le avventure di un cane scritte da Guillaume Bianco, di cui nel 2009 esce il primo volume monografico.
L’uomo saggio che si nasconde dietro l’autore si rivela invece nella pubblicazione “Tutt’a un Tratto – Una storia della linea nel fumetto”, edita nel 2005 da Tunué, dove Algozzino tratteggia l’itinerario percorso dalla “linea”, elemento fondante del fumetto in quanto linguaggio grafico-narrativo, in oltre un secolo di storia di letteratura disegnata.
Fra le sue interpretazioni, lo vediamo anche insegnante presso la Scuola del Fumetto di Palermo e fondatore del portale didattico Kinart
(www.kinart.it), il primo sito italiano che pubblica gratuitamente Tutorial di professionisti del fumetto. Proprio in uno di questi è lui stesso a raccontare la realizzazione di una piccola storia a fumetti ispirata al testo di una canzone, per la rivista “Mucchio selvaggio”.
Vedere la nascita del progetto – dallo storyboard alla scelta dei pattern (per The Musical box dei Genesis) - è come entrare nell’atelier e osservarlo al lavoro. Che è poi il principio del suo ultimo lavoro, il graphic novel “Comix show”, storia di Andrea, alter ego dell’autore, alle prese con un’impellente scadenza.
Nel frattempo, la musica torna a chiamarlo per la realizzazione dei disegni del video Mr. Man del gruppo dei Joy Cut: un video animato,
sorto dai disegni realizzati per il libretto. Del resto, per lui, la musica “è la più grande esperienza multimediale cui si possa aspirare,
ed è lì, sotto gli occhi, anzi le orecchie, di tutti: rimane attaccata alle ossa, ha il potere di rievocare non solo ricordi, parole o immagini, ma anche odori.”
Lo stesso effetto che Algozzino è riuscito a ricreare nelle pagine di “Ballata per Fabrizio De André” che, diventando sempre più chiare
come il tratto che incornicia le tavole, evocano la presenza del loro autore: nei quattro atti dell’opera, infatti - l’incontro, la veglia,
il funerale, il commiato – emerge in sordina quello che è stato giustamente chiamato “un manifesto della poetica di De André”. Appassionato da sempre del cantautore-poeta, Algozzino ha scelto l’originale approccio del suo lavoro ispirandosi a una struttura che
aveva potuto già amare “in un numero di Ken Parker con protagonisti i vari eroi del fumetto, la conclusione di Sandman, con la
carrellata di personaggi riuniti per l’occasione. Trovata la chiave, fu abbastanza semplice definirne la struttura. I dialoghi e la sceneggiatura, invece, hanno avuto una gestazione più tormentata.”
Dialoghi brevi, incorniciati dalla linea grafica tremolante che è ormai il segno distintivo dell’autore, una tecnica sorta per caso per
un episodio di Epictete in cui si supponeva che Algozzino si fosse rotto il polso. Una linea che rende perfettamente lo spaesamento
di questi “personaggi in cerca d’autore” nello scoprire che il loro, di autore, non potrà più dar loro voce. Dialoghi brevi, dicevamo,
ma intensi, nati dall’ascolto, ogni volta nuovo, della discografia di De André: perché la magia della musica è proprio far scaturire ogni
volta un’emozione.
Lo stesso effetto prodotto da un altro genere di musica, il suono della Pioggia d’estate, rapida e improvvisa,ma indimenticabile: come
i ricordi del libro omonimo in cui Algozzino fa un tuffo nel passato: dal Commodore 64 ai Transformer si apre un mondo in cui tutti si possono rispecchiare, perché i suoi ricordi sono ricordi di una generazione e, in questo senso, diventano universali. Un mondo narrato con quello stile intimistico – umoristico che a volte fa sorridere, a volte rende malinconici: l’auto-fiction che, tanto amata in Francia, ha fatto sì che proprio i nostri cugini transalpini stampassero la prima edizione.
Ma Algozzino è amore per Palermo, per l’Italia, ed è l’edizione dedicata ai suoi conterranei che ha voluto arricchire con uno dei suoi sogni di bambino, come si vede nel libro: oltre a due nuovi episodi, ha infatti inserito un’introduzione e, soprattutto, un backstage con alcuni storyboard e matite, ovvero il suo bisogno di divulgazione. Una qualità da approfondire.

Tu insegni alla scuola del fumetto di Palermo, ma hai anche fondato il portale Kinart, che raccoglie tutorial di vari fumettisti, disponibili per chiunque gratuitamente. Perché per te la divulgazione è un aspetto così importante?
Non ho frequentato una Scuola del Fumetto, e tutto quel che so l’ho conquistato con fatica, rubando informazioni quando potevo, rompendo
le scatole a tutti i professionisti che trovavo in giro, o andandoli a cercare quando iniziai a frequentare lemie prime fiere del fumetto. Sono ancora convinto che un cammino individuale ti faccia apprezzare meglio quello che impari, perché lo fai con le tue forze, ma bisogna anche saperlo prendere nelmodo giusto, e una scuola riesce ad accelerare notevolmente i tempi di apprendimento.Ma dipende tutto da te, sempre.
In adolescenza avrei sognato un portale come Kinart, dove potere andare a fare le mille domande che avevo in testa, e ringrazio tanto tutti gli autori che come me credono nel progetto e che ogni giorno aiutano qualche disegnatore in erba.
Sotto lo stesso punto di vista si possono inserire i “dietro le quinte” che realizzi alla fine di alcuni tuoi lavori? Una
forma di divulgazione?

Quella è più una conseguenza del mio amore viscerale per il fumetto, che fin da piccolo mi ha sempre portato a disegnare vignette e non illustrazioni singole, così, alla fine di una storia, mi divertivo a rilegarla, aggiungere una introduzione, a volte una finta pagina della
posta e l’immancabile backstage, perché era quello che amavo trovare in un fumetto quando lo acquistavo, anche se in realtà non c’era quasimai. Fa parte dellamia continua voglia di conoscenza del mezzo.
Pioggia d’estate è una sorta di autobiografia: torni indietro nel (tuo) tempo. Come permolti scrittori, anche in letteratura, un inizio classico. Non si è mai troppo giovani per ricordare il passato?Pioggia è per me una autobiografia piegata ai miei voleri: non ho l’età per permettermi di raccontare chissà cosa, dunque gioco su quelle piccole cose che abbiamo in comune tutti (il liceo, i videogiochi, i cartoni animati, i luoghi che ti hanno segnato, ilmare, i giocattoli...), che non metteremmo mai in una biografia ufficiale ma che ci portiamo dietro giorno dopo giorno, e che amiamo ricordare insieme agli amici. E’ soltanto una mia visione delle cose, senza impormi nellamemoria di nessuno, cercando solo di stimolare emozioni e ricordi sopiti.
Fumetto e cinema: quali sono i tuoi riferimenti in questo campo, che per molti fumettisti è un’ispirazione importante?
E, da un punto di vista più tecnico, ritieni che ci siano inquadrature che sono ormai parte del tuo modo di disegnare più di altre? Con cui rendi meglio la tua visione del mondo?Fumetto e cinema sono fratelli, si annusano fin dalla nascita e si influenzano vicendevolmente. Amo il cinema e ancor più, ultimamente, le serie tv, che hanno un linguaggio ancora più vicino al fumetto seriale. Non credo di avere delle inquadrature preferite, ma sono un fanatico dei “tagli” delle vignette, di quello che si sceglie di inserire, da lì il mio amore per artisti del calibro diAlexToth.
Sempre a proposito dei rapporti con le altre arti, ho letto sul tuo blog che “è sbagliato giudicare i fumetti utilizzando,
come si è soliti, i parametri della pittura moderna. Per asserire infatti che il fumetto ha una sua dignità è necessario
sdoganarlo dai continui paragoni”. E utilizzare canoni propri, deduco. Quali potrebbero essere, secondo te?

Io dico che il fumetto è un’arte a parte, l’arte del fumetto, per l’appunto, ed è quindi sbagliato giudicare un fumetto in base ai parametri della pittura, e quindi riconoscere se un disegnatore è più artista di un altro solo in base a quello. L’arte del fumetto è molto di più, noi che la pratichiamo lo sappiamo bene,ma se noi stessi ci ostiniamo a distinguere graphic novel da fumetti seriali, dividendoli, facciamo già un
grosso errore: ci sono numeri di Dylan Dog chemeriterebbero un posto in libreria ben più che certi volumi cartonati e ben presentati.
Disegno umoristico e disegno realistico: fra i due generi timuovi senza difficoltà. Tu hai una preferenza fra i generi?
Credo di no, fra l’altro nelle storie che scrivomischio volentieri, narrativamente, tutti e due i generi. Questo, credo, dipende dalmio amore per il fumetto giapponese, che riesce a inserire momenti demenziali in storie a volte serissime, anche cambiandomodo di disegnare
in quella stessa vignetta. Tezuka è un altro maestro assoluto.
“Io so che della sua infanzia ricordava soprattutto la casa di sua nonna”: nella Ballata è Angiolina a pronunciare
questa frase che mi ha fatto venire in mente i tuoi continui riferimenti a tua nonna. Gli affetti, ilmare, l’amore
per la propria terra… non c’è solo la musica a legarti a De André.

No, il legame con De André è molto più profondo, mi rispecchio in molte delle sue idee, di conseguenza amo la sua musica, non so cosa viene prima in effetti, ma di certo non mi fermo solo all’ascolto di una sua canzone. In questo, realizzare Ballata mi ha aiutato molto a focalizzare tutto quel che amo di lui.
Ho letto che “Nuvole” è stata il primo album che hai ascoltato di De André: un significativo preludio di questo tuo incontro con Faber. Oltretutto la canzone omonima recita “Certe volte sono bianche e corrono e prendono la forma dell’airone o della pecora o di qualche altra bestia ma questo lo vedono meglio i bambini che giocano a corrergli dietro per tanti metri”. Anche i fumettisti lo vedono?
Noi fumettisti viviamo di fantasia, e di deformazione della realtà, anche il fumetto più realistico è comunque un’interpretazione
di quello che ci accade intorno, non sarà mai un documentario freddo e impersonale. La lavorazione: per te viene prima la parola
o il disegno? Hai detto che Pioggia d’estate è un libro in cui “ho scritto tantissimo, pure troppo, ci sono alcune tavole strabordanti di testo e didascalie, ma non toglierei una virgola.”
Quanto ti impegna, nella realizzazione, la scelta del linguaggio?
Devono essere di pari passo, Pioggia ha tanto testo ma non avrei potuto fare Ballata in quel modo, diciamo che dipende dalla storia e dal tipo di fumetto che sto realizzando. Generalmente non decido nulla,mi lascio trascinare dalla storia, dai personaggi e il linguaggio verrà da sé.
Nomini spesso la Passione che ti guida.
Passione deriva dal latino “patior”, soffrire. Una condizione che si subisce, un’emozione che è più forte di noi…Sei un fumettista romantico (nel senso storico-artistico del termine, ndr)?
Ho paura di sì.Mimuovo solo seguendo lamia passione, che in primis è per il fumetto ma che in realtà è per un mucchio di cose... sono carico di passione, il che è veramente una sofferenza, perché difficilmente riesco a dire di no a qualcosa che mi piace, e, appunto, sono davvero tante le cose mi piacciono...
Per concludere, quali strade ti farà seguire ancora la tua “linea”?
Non lo so, il che è un drammama nello stesso tempo è un sollievo. L’anno prossimo potrei trovarmi a scaricare cartoni da un camion, è un lavoro difficile da sostenere con costanza, ma ho tante storie che vorrei raccontare, e qualcosa, prima o poi, uscirà fuori.


Immagini di proprietà di Sergio Algozzino

L'intervista - GUD








GOOD JOB, GUD!
di Manuela Capelli


(Satura, trimestrale di arte, letteratura, spettacolo http://www.satura.it/)

“Se una persona ha brutti pensieri, dopo un po’ glieli leggi in faccia. E quando i brutti pensieri li ha ogni giorno, ogni settimana, ogni anno, il suo viso diventa sempre più brutto, finché diviene talmente brutto che non sopporti quasi più di guardarlo. Una persona con pensieri gentili non potrà mai essere brutta. Potrà avere il naso bitorzoluto e la bocca storta e i denti in fuori, ma, se ha pensieri gentili, questi le illumineranno il viso come raggi di sole, e apparirà sempre bella.” Roald Dahl (Llandaff, 1916 – Great Missenden, 1990)

"Vignettiere, stripparolo e fumettiere”: si definisce così all’inizio del suo blog uno dei giovani più attivi del fumetto umoristico italiano, Daniele Bonomo, in arte Gud, di cui è appena uscita la deliziosa favola contemporanea Heidi mon amour, storia di Tommaso Speranza, che da piccolo si innamora di Heidi versione cartone animato e da grande di una Heidi in carne e ossa, dando vita a una di quelle storie d’amore “con la A maiuscola”. Ovvero, travagliate come la fiction televisiva di cui la Heidi adulta, da semplice truccatrice, diventerà protagonista.
Una storia dolce e realista, in cui l’autore si mostra capace di catturare – dall’inizio, quando la vita si svolge nella campagna dove Tommaso abita con il nonno e i suoi amici animali, alla fine, in quella Roma dove l’autore, che la vive da anni, fa muovere l’ormai cresciuto Tommaso – una variegata gamma di espressioni.
Sono proprio queste a rivelarsi il tratto peculiare di Daniele, un tratto riconoscibile anche nella sua prima opera a fumetti, “Gentes”, una raccolta di brevi storie umoristiche (di cui una, “Francesco e le foglie”,
candidata come miglior storia breve per il premio Carlo Boscarato 2008, dedicato alla memoria dello storico autore trevigiano), più il risultato della maratona che per gli esperti del settore risponde al nome di 24h del fumetto: 24 tavole, realizzate, appunto, nell’arco di una giornata.
Un volume molto interessante che chiude ognuna delle singole storie con una citazione (fra cui quella con cui apriamo l’articolo): citazioni diversissime che, da Rousseau a Bob Marley, mostrano una particolare attenzione dell’autore verso il mondo che lo circonda, una particolare sensibilità nei confronti delle emozioni.
In “Gentes”, infatti, in questi piccoli universi a sé stanti di umana quotidianità, Daniele era riuscito a ritrarre tutta una serie di personaggi che, come le vecchie figure della commedia dell’arte, ricalcano tipi umani specifici: un metodo sempre vincente, universale, perché, a-temporale e a-spaziale, si rivela in grado di agganciare il lettore, garantendogli di riflettersi in uno o nell’altro dei personaggi descritti, in uno o nell’altro degli episodi in cui è facile per chiunque ritrovarsi e riconoscersi.
In sintesi, partire dallo stereotipo per riproporre tramite la forma del disegno, più diretta, più incisiva, anche grazie al suo stile semplice e scarno di particolari, per indurre alla meditazione.
Una lezione imparata dal maestro cui ha dedicato anche un saggio: Will Eisner. Il fumetto come arte sequenziale, l’artista americano che, riportando le parole di Gud, “attraversando trasversalmente tutta la storia dell’arte sequenziale dal 1936 a oggi, ha trasformato i comics americani da romanzetti a un linguaggio con un proprio vocabolario e una propria grammatica.” E, ancora, “Le sue opere assumono una rilevanza dal punto di vista sociologico, non solo perché utilizza il mezzo di comunicazione fumetto, ma anche e soprattutto perché ci racconta le dinamiche della società, secondo quelle che sono state le sue personali esperienze”.
Libro pubblicato per la stessa casa editrice, “Tunué, Editori dell’immaginario”, specializzata nella saggistica dedicata al fumetto e alle graphic novel di talenti italiani e internazionali, di cui ora Daniele conduce, insieme a Sergio Badino (autore e sceneggiatore genovese, ndr), anche “Mono”, una rivista monotematica e composta da mono-tavole autoconclusive che riuniscono in un unico volume diverse visioni d’autore su uno stesso argomento.
Daniele, infatti, il fumetto non si limita a scriverlo, disegnarlo e analizzarlo, ma lo insegna e lo dirige, impersonando a tutto tondo quel “comics provider” che è anche il nome del sito da lui fondato e gestito per offrire on demand un po’ di sano umorismo. Dalla laurea in scienze politiche, infatti, ha fatto molta strada, lungo un percorso che lo ha visto giornalista pubblicista, insegnante di fumetto e storia del fumetto nella sede romana della Scuola Internazionale di Comics, direttore del settimanale online Segnalidifumo.it e, appunto, dell’agenzia Comicsprovider.com.
La prima volta, Daniele l’ho incontrato a novembre a Lucca, Luccacomics ovviamente: era il 2007 e presentava “Gentes”; la seconda volta, di nuovo a Lucca ma nel 2008, riesco a sfoderare un po’ di faccia tosta e gli chiedo se mi regala lo schizzo realizzato fra una richiesta e l’altra dei visitatori dello stand Tunué.
Il disegno, infatti, mi aveva affascinato: pochi tratti che traspiravano malinconia, pur nella festosa atmosfera dell’evento. Come il volume che avevo letto l’anno prima. Vado a cercare sul web quello che non so di lui; fra vecchie interviste e presentazioni, scopro che:
• ama “la memoria narrativa di Will Eisner (più che per il tratto proprio per la sua attitudine a raccontare cose semplici ripescate dai ricordi), i romanzi di Daniel Pennac, quelli di Stefano Benni e di Walter Moers. Per i fumetti su tutti c’è Manu Larcenet, prolifico autore francese che comincia ad essere pubblicato anche in Italia. Poi c’è Bill Watterson di Calvin e Hobbes, Reiser con il suo tratto, Craig Thompson, Marjane Satrapi, Jacovitti, Bonvi e Mauro Talarico, vero genio contemporaneo del fumetto umoristico italiano”.
• ritiene che “gli spazi per chi vuole raccontare al di fuori delle logiche commerciali ci sono, è che non sono spazi retribuiti come gli altri, tutto qui. Credo dipenda dai lettori, dalla cultura del leggere fumetti diversi dall´intrattenimento puro. Per mia fortuna negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando...”
• per Gentes si è ispirato a molti autori, umoristici e non: “mentre disegnavo in testa avevo il tratto incisivo di Reiser mentre la mano continuava a cercare un segno più pulito (Lewis Trondheim, Matt Groening, Zep?), ne è uscito un ibrido, di cui tutto sommato sono soddisfatto”.
Soprattutto, mi colpisce che la cosa che ama insegnare in primis sia l’importanza della curiosità.
Condivido. E decido di intervistarlo anch’io.
Prima di tutto, una curiosità: Gud sta per…
Il mio cognome è Bonomo, quindi già dalle scuole medie hanno cominciato a chiamarmi Goodman, che è diventato Good e infine si è trasformato in Gud.
Iniziamo dalla tua ultima opera. Una storia d’amore, un amore vero, di quelli che, seppur ostacolati, durano tutta la vita… insomma, un amore proprio da romanzo. Nella vita vera, è difficile il matrimonio? O è difficile l’amore? O si possono prendere entrambi con quell’ironia che sembra caratterizzarti?
É L’Amore con la A maiuscola il vero protagonista di Heidi mon Amour, e la A è talmente grande che impedisce a Tommaso Speranza di vedere altro. La sua vita è focalizzata su Heidi, sul loro matrimonio e sulla loro vita insieme, una vita a volte difficile proprio perché alla base del loro rapporto forse c’è questo vizio di forma, è dura convivere con quella che è stata il tuo idolo sin dall’infanzia.
Filo conduttore delle tue storie, una malinconia di fondo che coincide poi con l’ironia che fai trasparire nei confronti della vita. Il confine è così labile?
Per come la vedo io sì, il confine è labile e trovo interessante provare a muovere le mie storie in bilico tra l’ironia e la malinconia cercando di smuovere le emozioni del lettore in un senso o nell’altro.
Un altro tema. La morte. Che sottende tutto il libro: scriverne o disegnarla è catartico?
Amore e Morte sono la base della storia e sono tematiche che mi coinvolgono. In alcuni passaggi, mentre disegnavo o scrivevo la storia mi è scesa una lacrima.
Parliamo di “Gentes”, la tua prima opera intera: oltre alla storia nata nella 24 ore, storie brevi com’è tipico per gli esordienti. Com’è stata la lavorazione? Lunga e puntigliosa, per cui l’opera è perfetta, o se potessi ora cambieresti qualcosa?
Partendo dal presupposto che nessuna opera è perfetta, e che appena finita una tavola vorrei immediatamente ridisegnarla, posso dire di essere molto soddisfatto di Gentes come libro, anche per la risposta che ho avuto dai lettori. Dentro Gentes magari c’è qualche vignetta che vorrei cambiare, ma a vedere l’insieme non cambierei una virgola.
Definirei il tuo disegno “naif”, semplice, primitivo, essenziale, ideale per indurre a un’approfondita lettura del testo. Ti senti più narratore o più disegnatore?Direi che mi piace raccontare con i disegni. Gli occhi, le espressioni, è difficile disegnare l’espressione dell’amore? É difficile disegnare e trasmettere le emozioni. Un segno grafico sintetizza la realtà, un segno grafico che funziona la rielabora e gli attribuisce
nuovi significati e coinvolge anche emotivamente il lettore.
La copertina, invece, soprattutto in quest’ultimo caso, contribuisce a infondere al libro lo stato di sospensione della favola. Come lo realizzi e perché hai scelto di renderlo in questo modo?
Ho realizzato la copertina di Heidi mon Amour utilizzando i colori acrilici. La ragione è che con questo libro ho cercato di avvicinarmi il più possibile al lavoro artigianale dell’autore di fumetti. Tutte le tavole originali infatti sono così come si vedono in stampa già con il lettering definitivo fatto a mano così come tutte le scritte che compaiono sul volume (a parte il codice a barre).
Anche sulle cose a colori ho voluto “sporcarmi le mani” evitando il più possibile di utilizzare il computer e le tecniche digitali che fanno ormai parte integrante del mio lavorare quotidiano.
Come procedi con il lavoro? Sei di quelli che buttano prima giù il dialogo? O viene solo dopo?Testi e disegni vengono insieme, magari ho in mente la fine o l’inizio di una storia e al tavolo da disegno cerco di riempire le parti che mancano, di solito già sotto forma di storyboard. Questo naturalmente vale per le storie brevi, le strips e le vignette. Per Heidi mon Amour invece ho dovuto fare un lavoro preventivo a livello di testi anche perché gran parte del libro lo avevo già scritto sotto forma di romanzo, quindi c’è stato un grosso lavoro di adattamento prima di procedere con lo storyboard.
Che differenze hai notato fra la realizzazione del primo libro e quella del secondo? Cos’è stata la cosa più difficile in quest’ultimo?
Tra Gentes e Heidi mon Amour ho acquistato maggiore sicurezza, ecco anche spiegato il salto dalle storie brevi al romanzo che, proprio per la sua lunghezza, mi ha impegnato soprattutto dal punto di vista della coerenza e l’armonia del segno per tutta la durata della storia.
Com’è iniziata la tua carriera? O meglio, come è avvenuto il passaggio da “laureato in scienze politiche” a “fumettista tout court”?
Ho studiato alla scuola internazionale di comics nella sede romana, dove da qualche anno ho il piacere di insegnare. Il cammino universitario è proceduto di pari passo, tanto che mi sono laureato e ho finito la scuola nella prima settimana di luglio del 2000.
Da allora ho cominciato a lavorare da subito come disegnatore, soprattutto con la mia agenzia comicsprovider.com che si occupa di fornire contenuti disegnati conto terzi. Dopo qualche anno a lavorare per committenze esterne al mondo del fumetto ho sentito la necessità di fermarmi un attimo e tornare al mio amore per il racconto a fumetti, così è nato Gentes, come reazione al lavoro mercenario del disegnatore prestato alla pubblicità e ai corporate comics.
Base di un buon fumetto è proprio una buona “cultura di base”: letteratura e cinema, in primis. Tu quanto devi alla tua? Quali sono i tuoi riferimenti/le tue influenze in questi due campi?
Mi interessano le storie ben raccontate che facciano divertire e pensare allo stesso tempo e adoro i film che ti proiettano nel loro mondo senza chiedere niente. Cito a coppie: per la lettura Roald Dahl e Daniele Pennac; Per i film: il favoloso mondo di Amelie e i Goonies.
Che rapporto hai con le citazioni? Come le consideri? Un metodo più veloce per rendere un messaggio, o un buon modo per diffondere pensieri che hai amato?
In Gentes le citazioni sono delle frasi che mi hanno segnato e che avevo segnato mentre le incontravo nei libri che leggevo, nei film che vedevo o nelle canzoni che ascoltavo. Le ho scelte ed inserite nel libro perché in un certo senso completavano il percorso delle mie storie e davano quel valore aggiunto di cui a mio avviso il libro aveva bisogno. In Heidi mon Amour invece ci sono molte citazioni, ma sono perlopiù nascoste nella narrazione, sono omaggi a tutto un mondo che mi circonda e che vorrei condividere con chi legge il libro.
Ora, in parallelo con l’attività di vignettiere, l’avventura con Mono, dove sei in regia con Sergio: qual è la sfida in questo caso?
Per mono, la rivista monotematica della Tunué, la sfida è importante e impegnativa: tornare a far sperimentare gli autori di fumetti, facendoli cimentare su tematiche nuove (e impegnative), cercando di far avvicinare più gente possibile al fumetto.
Il primo numero di Mono della nuova gestione
(il numero 6, ndr) è stato un successo. Del resto, ho letto in una tua intervista che ritieni la situazione del fumetto italiano fiorente, fuori dal circuito ufficiale. È davvero così?
La situazione del mercato italiano è molto lontana da quella dell’industria d’oltralpe o americana, ma comunque a mio avviso sta vivendo un buon periodo. Rispetto a qualche anno fa per un autore ci sono molte più possibilità di pubblicare le proprie cose, con il vantaggio evidente di poter crescere insieme ai propri lettori.
Programmi futuri?
Per il momento sono al lavoro sul numero 7 di Mono e sto cominciando una storia a fumetti senza parole, a colori questa volta, indirizzata ad un pubblico dai 5 ai 110 anni.
Per salutarti, spero ti faccia piacere sapere che credo tu stia riuscendo nell’obiettivo che ami ripetere e che condivido in pieno: “Cerco di far ridere la gente”.
E di questo sono molto contento e ti ringrazio assai!



Immagini tratte da Heidi mon amour, più una cartolina di Gentes. Copyright Gud/Tunué.

Bibliografia:
Intervista ”Emozioni che provocano dipendenza”: intervista a Gud di Nicola Peruzzi e Antonio Solinas, su www.de-code.net
Sito casa editrice Tunué, http://www.tunue.com/