lunedì 12 luglio 2010

L'intervista - VANNA VINCI

RITI DI PASSAGGIO: IL MONDO A BIVI DI VANNA VINCI
di Manuela Capelli


“Riti di passaggio” è un libro di William Golding che ho letto all’epoca dell’Università, ed è il titolo che mi è venuto subito in mente per descrivere il complesso universo di storie di Vanna Vinci, autrice di fumetti dalla
carriera ventennale. Sia perché ricalcare il titolo di un’opera famosa per le graphic novel è una delle peculiarità di Vanna, sia perché ogni sua opera narrativa è ambientata durante uno di questi riti che l’antropologia definisce come gli inevitabili cambiamenti della vita di ognuno, quelle tappe fondamentali che permettono di crescere. È in quest’ottica che si leggono le storie di Vanna e delle sue protagoniste, giovani donne – confuse e infelici – che si trovano ad affrontare momenti di transizione sia mentali che fisici. Come l’autrice, infatti, cagliaritana di nascita ma bolognese d’adozione, le varie Aida, Agnese, Rosa, Gilla si spostano dalla propria città natale verso nuove mete che le accoglieranno per motivi di studio o di cuore. Perché quello che Vanna vuole indagare è l’animo umano. E, in particolare, tutti quei dubbi da cui si viene spesso assaliti, a volte schiacciati, a volte spronati. Come nella sua ultima opera, “Gatti neri Cani Bianchi” in cui Gilla, trasferitasi a Parigi per scoprire se nuovi studi, nuove persone o una nuova città potranno dare un senso alla sua vita, riuscirà a fare il punto su se stessa – e neanche poi completamente - solo grazie all’incontro di tre fantasmi. Non sono sufficienti le persone vive, reali, concrete, a indicarci la via? No, pare essere la risposta. Le strade da intraprendere nascono dentro noi stessi, magari aiutati da figure che solo la nostra mente è capace – o crede – di vedere. Al punto che i fantasmi compaiono come presenza ricorrente, così come fanno fugaci comparse i vampiri – in “L’altra parte”, dove una giovane umana e un diafano vampiro cercano il lato diverso da sé - e l’alchimia. Vanna ama il buio, quindi, l’oscuro, reso anche graficamente da un potente alternarsi di bianco e nero. Ma Vanna ama anche la luce. Svelando una doppia personalità: di notte (o forse di giorno) profonda e malinconica, di giorno (o forse di notte) ironica e mordace. Entrambe, comunque, filosofiche come la “Bambina” che le ha dato gli onori della fama.
“Nata casualmente su un tovagliolino in un pub del dopocena”, la Bambina filosofica inizia ad aggirarsi
dapprima fra le pagine di Mondo Naif (la rivista d’autore di Kappa Edizioni) per poi spiccare il volo, e ampliare la parlantina, su volumi tutti suoi. Laddove infatti le sue prime parole ricalcavano famose citazioni di personaggi del calibro di Totò e Karl Kraus, nelle sue strisce più celebri la Bambina si mostra appieno, rivelandosi effettivamente pessimista, ma anche tanto scorbutica (“E se prendessimo in considerazione l’idea di un precettore?” pur di non vedere i compagni di scuola) quanto fashion victim (non faccio un passo senza un paio di sandali di Gucci). Due aspetti, il buio e la luce, dicevamo diametralmente opposti. Due aspetti che, come tutti gli opposti, fusi creano un unicum estremamente interessante. Come insegna il Giappone (e Vanna Vinci cura l’editing di “One Piece”, il manga di EiichiroOda pubblicato in Italia da Star Comics).O come l’unione dei due stili che hanno caratterizzato la sua formazione artistica: un ibrido di manga e Pratt (“avevo letto le storie brevi di Corto Maltese... mi avevano talmente impressionato che ho passato un anno solo a copiare le facce dei personaggi, per imparare come erano fatte”, leggo in un’intervista).
Senza Corto Maltese, oggi non ci sarebbe Vanna Vinci. Ma neanche senza gli occhioni squadrati di Lady Oscar. Due muse – cui si possono aggiungere anche Ronald Searle “il disegnatore che preferisce in assoluto”, Crepax e Battaglia – che conferiscono quel tratto fra il nipponico e l’italiano che è il suo segno distintivo, sempre puro e pulito, costituto da “almeno due o tre linee sovrapposte. Il tratto, anche se cambia, secondo me all’origine è sempre lo stesso, graffiato e indurito emultiplo”. Un tratto che, ovviamente, con il tempo subisce delle variazioni, cresce insieme alla sua mano, dando vita, sull’impulso del momento e mai in modo programmatico, a scene zeppe di oggetti prima, poi a vignette spoglie e poi ancora su sfondi pieni e ricchi. Ricchi come il mondo interiore che mira a rappresentare.
Partiamo dalla fine. Nel tuo ultimo romanzo la protagonista afferma: “Sradicata, persa.. ecco come mi sento…”. La protagonista è, di nuovo, una ragazza al bivio. È davvero solo una condizione tipica della giovinezza? O non si smette mai di sentirsi in un bivio?
Non lo so... Ma spero che non si smetta mai di nutrire dubbi e sentirsi imperfetti. Certo credo che in una condizione di passaggio da una fase adolescenziale e quella adulta, questa sensazione sia più evidente, più espressa. Nel caso di Cicci, che ha varato i sessanta, la sensazione presumo sia uguale, anzi, di maggiore sconcerto... Ma in sessant’anni lei avrà imparato a fare almeno in parte, finta di nulla, a non dare a vedere di essere spaventata... In ogni caso mi interessano i riti di passaggio e i personaggi che attraversano queste fasi. Mi piace aspettarmi qualcosa di inconsueto e irrazionale da parte dei personaggi, che facciano qualcosa che non farebbero in una condizione normale o stabile.
Sempre in “Gatti neri, cani bianchi”, si leggono sia le parole di Beckett (tratte da “L’ultimo nastro di Krapp”): “Forse i miei anni migliori sono finiti. (…) Ma no, non li rivorrei indietro” sia la frase (da un 50enne, ndr): “e sai qual è la cosa più assurda? È che se non ti guardi allo specchio, ti senti ancora come quando avevi vent’anni”. Tu in quale ti identifichi di più?
In nessuna delle due. Senz’altro non mi sento come quando avevo vent’anni, né mi vedo così, né sono  così... Ma nemmeno credo che i miei anni migliori siano finiti. Mi sento cresciuta, ma in movimento, in sviluppo... Come un bruco... Mi spunteranno alla fine le ali? E nel caso... Riuscirò a farle stare sotto
le giacche e i cappotti? Sarò farfalla, falena, mosca, zanzara, ape, vespa, gabbiano, piccione o pterodattilo? O gallina?
Dici che “scrivi sempre la stessa storia”: i tuoi romanzi, la tua fantasia sono rivolti piuttosto verso un passato sfumato nei toni del blu, inteso - all’inglese - come malinconia, che verso un futuro potenzialmente roseo?
Sì, ho scritto diverse volte la stessa storia, come molti prima di me… cambiandola, potenziandola, definendola. Ma i miei romanzi parlano sempre del presente, di un lasso di tempo ridotto, di momenti, al
limite delle influenze che il passato può avere sul presente…ma mai del futuro…
Prima di tutto perché io non penso e non ho mai pensato al futuro... Non ci riesco e non ci credo nemmeno... Non ho idea di quello che potrebbe arrivare o succedere... è roba per chiromanti o preveggenti. Se devo mettermi a pensare al futuro, mi leggo i tarocchi, o l’Oracle Belline. Fondamentalmente mi interessa solo il presente, o un futuro molto prossimo, parlo di giorni o settimane... Il passato è una cosa interessante, si può analizzare da diecimila punti di vista e molti episodi, o sensazioni salgono alla superficie molto tempo dopo. È come un baule pieno di roba, e frugarci non è poi tanto male...Del resto il passato è quello che siamo e siamo stati e produce effetti sul presente. Sì, a volte posso sentire della malinconia, ma è una condizione che fa parte del mio dna, è qualcosa di familiare, che conosco...Ma è qualcosa in cui evito di infangarmi.
Quale dei tuoi romanzi metteresti sul podio in un’ipotetica graduatoria? Quale pensi rifletta al meglio le tue doti di narratrice e quale quelle di disegnatrice?
Non so rispondere. Sono tutti “pezzi ‘e core”… L’ultimo è sempre quello che mi pare più evoluto e complesso. Posso dire senz’altro però che Aida al confine è stato un crinale, un punto di maturazione e di passaggio.
I tuoi titoli sono sempre evocativi (Guarda che luna, Doppio sogno, ndr). Anche quest’ultimo è un riferimento a qualche opera in particolare? E da cosa deriva la scelta di instaurare questo gioco con il lettore? Agganciarlo con qualcosa che il suo inconscio riconosce?
La verità è che io sono una vera schiappa coi titoli. Spesso li ho ripresi da opere o da canzoni che mi piacevano. “Gatti neri cani bianchi” è legato alla storia, e anche a un’idea strettamente personale. Io sono
assolutamente scettica e non ho mai visto un fantasma o un’apparizione spettrale, però, a pensarci, se dovessi vedere qualcosa di trascendente e immateriale, credo che si paleserebbe come un gatto nero e
peloso, forse anche un po’ vecchio e spelacchiato o un cane bianco tipo spinone che passa veloce vicino al pavimento andandosene per i fatti suoi... Da qui il titolo. È un po’misterioso, ma del resto i fantasmi lo sono, no?
Vanna Vinci e la città: sembri avere un rapporto privilegiato, nei tuoi romanzi, con l’ambiente urbano. Cosa rappresenta per te? Semplicemente il tuo mondo o anche, secondo te, il maggior crocevia di vite – e di storie - possibile?
Io sono affascinata dalle città, dai paesi, dai villaggi, dagli agglomerati urbani…dal paesaggio prodotto dall’uomo. Sono urbana anche come indole. Non amo molto la campagna…per carità, mi piace, ma la città
è il posto che preferisco. La amo e mi fa paura. Mi ci muovo come se fossi trasparente. Camminare in mezzo alla gente mi fa entrare in contatto con me stessa. Sentirmi sola in mezzo alla gente, nel bene e nel male, è sempre importante per me. È come sentirmi viva anche se nessuno mi conosce. E poi le città sono spesso piene di strati: storici, architettonici, umani, letterari, psicologici… Nella città, nella casa, nel villaggio c’è tutto.Mi piace camminare per le città, e nonmi va di farlo in campagna o montagna. Mi piacciono le foto delle città, gli interni dei cortili, delle case, i negozi, le periferie, anche l’abbandono… mi piace l’umano... Ecco… se devo pensare a qualcosa chemi affascina in un certo qualmodo come l’umano, ma in modo piùmisterioso e remoto…è la terra, la roccia, e il mare. Stare a contatto col granito o la sabbia, vicino a quella enorme massa d’acqua piena di roba, è un’esperienza molto importante per me. Ma sono sarda…
Fantasmi e alchimia: due elementi ricorrenti. Che si inseriscono tra l’altro nella moderna rappresentazione del quotidiano tipica delle tue storie in modo quasi contrastante. Cosa ti affascina dell’occulto?
Devo dire che pur non credendo in niente di occulto, la faccenda mi ha sempre interessato, mi incuriosisce. Ho raccolto un sacco di materiale nel corso degli anni, sempre pensando di usarlo per delle storie. Di fatto, come ho detto, fantasmi non ne ho mai visto. È chiaro che, come tutti gli scettici, ho fifa in certe occasioni.
Ma anche la mente ha parti occulte… Di fatto i fantasmi mi servivano e mi servono, nelle storie, per saltare le generazioni. Far incontrare personaggi vivi con personaggi morti realisticamente sarebbe impossibile da attuare senza l’uso del fantasma o dell’immortalità. Poi, visto che in fin dei conti sono attaccata a terra, i miei fantasmi o i miei immortali sono esseri umani consistenti e materiali come i vivi, ammesso che i vivi lo siano… insomma tra fantasmi o immortali e vivi non ci sono grandi differenze nelle mie storie… Semplicemente i fantasmi, i vampiri o gli immortali hanno qualche segreto in più… Per quanto riguarda l’alchimia, be’, è un tema interessante, l’eterna giovinezza, l’eliminazione delle malattie e della morte… È un tema molto “umano”. È l’unico vero mistero di cui siamo effettivamente a conoscenza e per il quale non abbiamo trovato il rimedio o la spiegazione…L’alchimia è questo, definitivamente…


Non si contano i riferimenti in “Gatti neri, Cani bianchi”: musicali, letterari, architettonici, di moda. Quali influenze trovi imprescindibili nel tuo lavoro?
Mah…io sono un’ossessiva. E poi mi piace cercare…Se inizio una storia cerco tutto il materiale che posso trovare, se posso vado sul posto, se ci sono testi li leggo… Voglio essere completamente immersa
nel brodo dei miei personaggi. Per la musica, poi… la ascolto mentre disegno. A volte rientra nelle pagine da sola, casualmente, perché magari in quel momento, mentre disegno, sto ascoltando quella canzone. Oppure la canzone è un trucco per definire l’atmosfera, per caricarla, per dare un altro dettaglio al lettore. Altre volte è uno scherzo, una componente ironica, oppure un commento alla vignetta o alla sequenza.



Ho letto in qualche intervista che hai la tendenza a non buttare mai via niente e a raccogliere oggetti “come le bestioline del sottobosco che ficcano nelle loro tane di tutto”. La descrizione particolareggiata che fai degli ambienti ne è una conseguenza?
Chissà, è probabile… non ci avevo pensato… Di sicuro ho l’horror vaqui e sono disordinatissima e dedita all’accumulo… però che questa caratteristica, chiamiamola difetto, si ripercuota sui miei disegni… be’, mi sembra interessante e possibile. Ci rifletterò.
Il linguaggio, la scelta delle parole, a che punto entrano in scena, fra le fasi di realizzazione?
Soprattutto visto che sul tuo sito affermi di non scrivere una vera e propria sceneggiatura. Quanto ritieni importante questo aspetto?
L’iter di lavorazione è questo: mi viene l’idea, che di solito è un momento, un fatto, un’atmosfera, poi scrivo una scaletta che correggo e metto a punto, tenendo conto delle pagine che ho a disposizione. Poi scrivo questo lungo trattamento che è un misto di descrizioni di azioni, atmosfere e luoghi e di dialoghi. Qui entrano in gioco le parole. Qui mi occupo di come parlano i personaggi. A volte, spesso, quando comincio a disegnare, il dialogo viene frammentato (ho orrore dei balloon molto pieni o troppo grandi), e spesso trasformato o tagliato o allungato. I dialoghi sono azioni, sono fondamentali quanto le sequenze… Le parole sono discriminanti. Le parole chiariscono, attaccano, obnubilano, disperdono… Correggo le parole fino all’ultimo…
Lasciamo un attimo la parte testuale e passiamo ad altri linguaggi: tu che il computer, leggo, lo usi “solo per scrivere le storie e le mail” in che punto ti poni nella linea tra pittura e fumetto?
Ah…io mi pongo sul fumetto. Non ho mai fatto pittura. Io mi occupo di sequenze. Di racconti disegnati in sequenza, fatti per essere stampati. L’originale è irrilevante. Non me lo immagino incorniciato.
Vanna e il Giappone: che rapporto c’è? Va oltre la pura contaminazione grafica? Il Paese apparentemente tanto formale ma anche estremamente passionale influenza le tue storie? Ovvero, l’ispirazione è anche culturale?
Io sono della generazione che ha visto Goldrake alla scuole medie. Non posso negare l’influenza che il Giappone ha avuto sui miei fumetti e su di me. Ma, a pensarci adesso, credo che quello che ha avuto
più influenza reale, e non solo di fascinazione, sono stati Pratt, Crepax, Searle, Battaglia, Schulz, Salinger, Bernhard… l’Occidente insomma… Poi non posso negare che il cartone animato di Lady Oscar, o alcuni Shojo Manga un po’ vecchi e l’impaginazione libera siano stati per me fondamentali… ma il Giappone
è davvero molto molto lontano… È una cultura complicata e lontanissima. Di cui non so poi molto.
Per concludere, vorrei sapere: qual è la vera personalità di Vanna Vinci? O, per dirla in altri termini, quando viene fuori l’autrice satirica e quando la narratrice malinconica? Si sovrappongono quotidianamente o vengono alimentate da particolari momenti di vita?
Oddio, io non so definire la personalità di Vanna Vinci. I due aspetti si sovrappongono, sono entrambi veri, cioè a tratti autobiografici. Come tutti, a volte sono di umore negro…altre volte sono umoristica, altre sardonica…La vita, gli eventi c’entrano sì e no… Se posso dire una cosa personale: la bambina filosofica è un’autobiografia. Le altre storie pure… Non saprei quale delle due sia quella seria…Certo… la bambina mi assomiglia parecchio…



CENNI DI BIOGRAFIA
Esordisce nel mondo del fumetto nel 1990. Sulla rivista Nova Express pubblica L'altra parte e Doppio sogno. Realizza con Giovanni Mattioli, Guarda che luna, Una casa a Venezia e L'età selvaggia,
vincitore del Premio Romics 2001 come miglior libro di scuola europea.
Pubblica i romanzi a fumetti Ombre, Lillian Browne, Viaggio sentimentale, Aida, Sophia la ragazza aurea e Sophia nella Parigi ermetica e Gatti neri cani bianchi. Come autrice satirica ha realizzato
tre volumi de La Bambina Filosofica.
I suoi libri a fumetti escono in Italia per Kappa edizioni e in Francia per Dargaud. Come illustratrice per ragazzi ha collaborato con Fabbri e Battello a Vapore, fra gli altri. Nel 1999 ha vinto il Premio Yellow Kid come miglior disegnatore italiano e nel 2005 il Gran Guinigi di Lucca Comics come miglior disegnatore.

Tutte le immagini sono di esclusiva proprietà di Vanna Vinci.
L'intervista è uscita sul numero 2/2010 di Satura

Nessun commento: