mercoledì 19 ottobre 2011

MANUELE FIOR. Incanto e disincanto


di Manuela Capelli - pubblicato sul numero 15/2011 della rivista "Satura"

Incanto e disincanto. Come quelli di un fumetto, “Cinquemila chilometri al secondo”, che in ogni foglio dipinge emozioni (l’incanto), e del suo autore, Manuele Fior, classe ’75, una vita in valigia per diversi anni (il disincanto). Partendo da una calda giornata romagnola, Manuele tratteggia ad acquerello le vite di Piero e Lucia, che seguiranno il proprio destino rispettivamente in Egitto e in Norvegia, lui come archeologo ad Aswan, lei per cercare se stessa fra le pagine di una tesi su Ibsen, fino a un ultimo incontro sotto un acquazzone di chiarimenti e nessuna possibilità. Perché la loro storia d’amore, perennemente costellata dalla presenza/assenza dell’amico Nicola che, pragmatico contraltare del romantico Piero, si mostra solo all’inizio e alla fine del romanzo, lì dove non c’è spazio per le illusioni, non ha il beneficio del lieto fine. Non ce l’ha perché la vita nemmeno lo ha; non sempre, almeno. Soprattutto in una generazione che, precaria anche nei sentimenti, ama le illusioni ed è convinta che “cinquemila chilometri” si possano superare come niente fosse con una telefonata. E anche se questa non è una storia autobiografica, Manuele, che ha un background di valigie fatte e disfatte, lo sa. Il suo diventa così uno sguardo oggettivo, puro, che non commenta (“non siamo mica qui per la resa dei conti”, dirà alla fine Piero). Ma racconta. Guardando a Truffaut, osserva la realtà quotidiana e la rende universale. Accende una luce su tre vite qualsiasi e lascia che i personaggi prendano in mano le redini e diano vita alla storia, perché - come spiega nell’intervista che segue la vittoria del Premio 2011 per il Miglior Fumetto del prestigioso Festival di Angoulême (Francia) - lui mette gli ingredienti, pescando fra le sue stesse caratteristiche e il loro esatto opposto, “qualcuno è più coraggioso, qualcuno è più vigliacco, qualcuno è più furbo…”, e poi osserva cosa fanno: vuole guardarli dritti negli occhi, e non muoverne i fili come fossero marionette.
Tutto parte dal disegno: le idee come le pagine, senza mai uno storyboard. Ed è proprio dalla necessità di ridar vita ai panorami emotivi su cui Manuele ha percorso le sue vite precedenti che nasce “Cinquemila chilometri al secondo”. Graficamente, la storia è scandita dagli stacchi cromatici che concretizzano quei Paesi tanto diversi: i malinconici blu norvegesi in cui si rispecchiano i dubbi esistenziali di Lucia, i gialli, i verdi, i marroni di un’Africa calda e accogliente (anticipati dagli stessi colori nella rappresentazione della giovane e spensierata patria romagnola di Fior) fino a una pioggia battente, che tutto scolora nel momento della verità. Il tratto, invece, rimanda tanto a Degas (ricordate la sua serie di donne al bagno?) e ai Fauves quanto all’espressionismo tedesco di Kirchner. Quasi sull’onda di un suo lavoro precedente: “La signorina Else”, tratto dall’omonima opera di Schnitzler. Ora che si è fermato, a Parigi, c’è la paura di non avere spunti. O forse no: è anche dalle radici che germogliano storie degne da raccontare.

Tu sottolinei le differenze di ognuno dei luoghi di Cinquemila grazie a un uso sapiente del colore, ma qual è secondo te la principale difficoltà nel rappresentare un Paese straniero?
Non ho trovato difficoltà a rappresentare l’estraneità dei paesi, forse perché sin dall’inizio ho scelto dei posti agli antipodi, l’Egitto, la Norvegia, in mezzo a loro l’Italia. Sono paesi che hanno veramente poche cose in comune. Di ciascuno penso di aver dato una visione molto soggettiva, lontana dal reportage, fortemente filtrata dai miei ricordi e dalle mie impressioni.

L’acquerello permette di creare piccoli quadri di vita dai contorni indefiniti. È impossibile delineare in modo preciso le vicende umane? È questo il motivo della scelta? Serve a sottolineare la precarietà di queste esistenze?
La scelta della tecnica è qualcosa che viene prima di tutto, nel mio caso, prima ancora di identificare il soggetto di un libro. Considerando la natura effimera dei sentimenti, probabilmente c’è una certa corrispondenza nel modo di rappresentarli. Volevo comunque che il risultato grafico finale fosse solido, ben leggibile e che le ambiguità rimanessero nella testa del lettore, non nella narrazione.



Hai spiegato che i cinquemila km al secondo sono l’emblema di una comunicazione che “sembra sempre più semplice, (…) per cui si ha l’illusione di essere presenti uno all’altro anche se non ci si vede praticamente più”. Perché piove nel finale? L’acqua spegne i colori dell’illusione?
Non c’è un perché, la pioggia non ha un valore simbolico o didascalico, mi sembrava solo una bella cornice per chiudere. Io credo che le illusioni abbiano una funzione molto importante, anche quando muoiono. E poi non muoiono mica tutte! Non volevo fare un’apologia del disincanto, ho cercato di restare più possibile vicino a una vicenda realistica, che non è successa a me, né ad altre persone che conosco, ma che potrebbe succedere a chiunque.



Ricollegandomi alla domanda di prima, direi che la tua è una visione della tecnologia piuttosto disincantata e negativa. In quest’ottica, come vedi le moderne applicazioni del fumetto?
La tecnologia ha cambiato il fumetto, come ha cambiato tanti altri aspetti dell’arte e della vita in generale. Il fumetto è stato per molti anni pennello Windsor & Newton e inchiostro di china – per essere al meglio riproducibile; oggi si può scannerizzare qualsiasi cosa che faccia un segno sulla carta. Per questo stanno nascendo molti altri modi di disegnare e scrivere fumetti, che a mio parere allargano il campo d’azione di questo linguaggio. In questo senso io sono il primo a sguazzare dietro ogni nuovo ritrovato tecnologico.
Se la domanda verte più sugli e-book sono meno preparato, mi sembra che non si sia ancora arrivati a qualcosa di soddisfacente neanche riguardo al formato libro in generale. Ma, ripeto, non me ne intendo un granché.



Nel tuo blog ti chiedi: quante volte si rifà una vignetta? Io ti chiedo: quante volte si riscrive una battuta? I dialoghi sono forse uno degli elementi più sottovalutati, laddove raggiungere una sintesi significativa non è affatto semplice…
Infatti, e per dirla alla Paolo Bacilieri (l’autore di Zero Porno e, fra gli altri, della serie bonelliana Napoleone, ndr), anch’io riscriverei alcune battute anche a libro stampato. Il testo nel fumetto occupa uno spazio che può andare da zero a un certo livello, che non deve essere troppo.
A me sembra sempre più simile alla scrittura teatrale. Essendo limitato, deve essere ben congegnato. Ci sono testi che hanno una funzione esplicativa, ce ne sono altri che servono solo a se stessi. Io alla base sono un disegnatore e ho dovuto imparare a scrivere (ammesso che ce l’abbia fatta): mi impegna sempre molto.



Hai una laurea in architettura. Pensi che incida o abbia influenzato in qualche modo il tuo lavoro?
Sì, penso che mi abbia aiutato a distogliere lo sguardo dal mondo del fumetto e dei fumettisti che a volte è molto autoreferenziale. Sono un lettore e un appassionato di fumetti, ma anche di altre cose. L’architettura rimane un interesse fondamentale.



Cosa vuol dire per un giovane autore italiano, per quanto cittadino del mondo, approdare al NewYorker?
 una grande soddisfazione, anche se poi quando vedi l’illustrazione pubblicata 12 x 12cm pensi “beh tutto qui”? Spero che mi diano almeno una copertina.
Il viaggio: protagonista di Cinquemila, lo è anche del numero estivo di Internazionale, di cui hai realizzato la cover. Un argomento che ti è caro… cosa rappresenta per te?
Rappresenta un modello di vita. Spero di non aver finito di viaggiare, non nel senso turistico, ma nel senso di andare a lavorare da qualche altra parte, imparare un’altra lingua. Mi dà la sensazione di essere libero.
Pensando a “La signorina Else”, quali sono secondo te le sfide più grandi nella trasposizione di un’opera letteraria? Quali le principali differenze con la creazione tout court?
La sfida alla base è quella con l’autore che si vuole adattare, rispetto al quale bisogna perdere un certo timore riverenziale. Quando scrivi una cosa di tuo pugno pensi sempre se valga veramente la pena di raccontarla. In un adattamento parti da una base di cui sei più certo, visto che l’hai scelto. L’attenzione si sposta per cui sugli aspetti più tecnici di mise en scene. Volendo poi, si dovrebbe avere il coraggio di confrontarsi veramente col messaggio dell’autore e attualizzarlo o contraddirlo, ma non penso di essere arrivato a tanto con La signorina Else. Mi sono accontentato di tradurlo in un fumetto.
Riferendoti al vivere in un Paese straniero in Cinquemila si dice “Agli occhi di queste persone rimaniamo degli estranei. Col tempo finiamo per diventarlo anche dei nostri cari. E questo non vuol dire essere liberi. Persi semmai.” Tu sei libero o perso?
Mi sento libero penso, per quanto si possa essere liberi nella nostra società. Non mancano momenti in cui ti manca il terreno da sotto i piedi, ma è un gioco che vale la candela.




BIO
Nato a Cesena nel 1975. Dopo la laurea in Architettura a Venezia nel 2000, si trasferisce a Berlino, dove lavora fino al 2005 come fumettista, illustratore e architetto.
Nel 1994 vince il primo premio alla “Bienal do Juvenes Criadores do Mediteraneo” di Lisbona – settore fumetto. La collaborazione con l’editore tedesco Avant-Verlag comincia nel 2001 con rivista Plaque.
Da allora inaugura una fitta produzione di storie corte a fumetti scritte dal fratello Daniele, apparse su Black, Bile Noire, Stripburger, Forresten, Osmosa.
Ha pubblicato le graphic novel Cinquemila Chilometri Al Secondo - Coconinpress 2010 (Fauve d’Or – Miglior Album – Festival Internazionale di Angoulême 2011, Premio Gran Guinigi – Autore Unico, Lucca 2010), La Signorina Else - tratta dal romanzo di A. Schnitzler – Coconinopress 2009 (Prix de la ville de Genève 2009), Rosso Oltremare – Coconinopress 2006(Premio Attilio Micheluzzi, Miglior Disegno per un Romanzo Grafico, Napoli), Les Gens le Dimanche – Atrabile 2004.
Collabora con le sue illustrazioni per The New Yorker, Le Monde, Feltrinelli, Einaudi, Sole 24 Ore, Edizioni EL, Fabbri, Internazionale, Il Manifesto, Rolling Stone Magazine, Les Inrocks, Nathan, Bayard, Far East Festival.

Tutte le immagini sono ©Manuele Fior. Cinquemila chilometri al secondo è un'edizione Coconino Press 2010


giovedì 22 settembre 2011

Ancora copywriting. Per AISM



Naming, studio e sviluppo dello stand AISM per il XLII Congresso SIN- società italiana di neurologia




martedì 2 agosto 2011

martedì 19 aprile 2011

PIETRO SCARNERA. Pensieri di ieri, pensieri di oggi

Coinvolgente suo malgrado. L’opera prima di Pietro Scarnera, “Diario di un addio” (Ed. Comma 22), vincitrice nel 2009 della selezione regionale del Premio Komikazen (Festival del fumetto di realtà), cronistoria degli ultimi anni trascorsi accanto al padre in stato vegetativo, inserisce così – grazie a una lucida capacità di rendicontazione - il giovane Pietro nel novero degli autori maturi. Un testo forte, come solo un’esigenza poteva dettare, che mostra come la realtà di chi si ritrova nella  condizione di vita sospesa non sia quella del pacifico dormiente presentata dalla cinematografia classica. Lui, che nella vita si occupa di giornalismo e comunicazione, nel suo romanzo si esprime solo attraverso didascalie. Ed è proprio attraverso questo silenzio che riesce a incidere le coscienze obbligando a riflettere, che riesce a riunire due posizioni opposte – quella di Beppino Englaro e quella di Fulvio De Nigris – nella postfazione al libro. Graficamente naif, con un tratto che non commenta ma è tuttavia estremamente espressivo, Pietro ci accompagna nel suo percorso interiore, fino alla ricomposizione stessa dell’immagine del padre che, in un’intensa vignetta a piena pagina, era esplosa in mille frammenti.



Partiamo dalla scena delle barchette di carta: una flotta per difendersi dalle emozioni. Qual è stata la sfida più difficile da affrontare? Quali emozioni incarnavano e quali messaggi  mandavano a chi condivideva la tua situazione?
I cinque anni in cui mio padre ha vissuto in stato vegetativo sono stati tutti difficili, non saprei identificare una “sfida” in particolare... però c'è stato un momento in cui facevo fatica a reggere la situazione anche fisicamente: per circa un mese mio padre è stato ricoverato in un reparto di medicina generale, e non era un posto adatto a lui, anche gli infermieri non sapevano come comportarsi... così dovevamo starci sempre, a volte anche di notte. Quel periodo mi ha fatto capire quanto è importante un'assistenza qualificata per queste persone, quella che abbiamo trovato nella clinica di lungodegenza in cui alla fine siamo stati trasferiti. Senza una struttura del genere, non so quanto avremmo retto... Per quanto riguarda le barchette, in realtà mi sono reso conto solo lavorando al libro di cosa significavano: non penso chemandassero messaggi all'esterno, erano solo un piccolo stratagemma per non pensare, per tenere lemani occupate... poi ho scoperto che anche mia zia (la sorella di mio padre) ha questa mania delle barchette, si vede che è una cosa di famiglia!

“Evitavo di scrivere quello che provavo. Non sapevo cosa sarebbe venuto fuori”. Scrivere di una situazione che fa soffrire a volte non è catartico: è impossibile. Disegnare invece no. Come mai secondo te?
Quando qualcosa non va, il mio primo impulso è di mettermi a scrivere, e di solito mi fa sentire meglio. Nel periodo raccontato nel libro invece la scrittura non funzionava: qualche volta ci ho provato, ma mi faceva stare male, peggiorava le cose, e ho capito che non potevo scrivere finché quella storia la stavo vivendo. Anche disegnare mi faceva stare male, ma era una cosa che controllavo molto meno... in realtà io volevo disegnare altre cose, però spesso sulla pagina comparivano questi disegni piuttosto “disturbati”, i volti dei malati che vedevo intorno a me, che poi ho voluto inserire anche nel libro.

Il fumetto accompagnato da didascalie piuttosto che da balloon fa vivere appieno il dramma del silenzio, il tuo dramma personale. Come definiresti il peso parole/immagini? E com’è nata questa scelta, consapevolmente o spontaneamente?
È stata piuttosto spontanea: avevo moltissime cose da dire. Una delle cose che mi piace del Diario è che mi sembra molto “denso”, pieno di cose. Penso che sia importante per un fumetto: si impiega tanto tempo a realizzare qualcosa che poi si legge, nel caso del mio libro, in un quarto d'ora-venti minuti. Ecco, se almeno in quel quarto d'ora riesco a “catturare” il lettore, a dilatare almeno la sua percezione del tempo di lettura, allora ne vale la pena.


La semplicità del tratto ti ha permesso di essere più crudo rispetto all’aver usato delle parole nella descrizione. Cosa ti ha dato la forza di riaprire le ferite, sviscerarle e riprodurle nel lungo lavoro di un anno per scomporre e ricomporre appunti e disegni in un fumetto strutturato?
Bè, a un certo punto mi sono accorto che dovevo raccontare questa storia: tutti parlavano di coma e stato vegetativo, sui giornali, in tv, e quasi sempre a sproposito. E io non riuscivo a stare zitto, avevo proprio bisogno di raccontare... infatti mentre vivevo quel periodo non riuscivo a parlarne all'esterno, dopo non mi facevo problemi, lo dicevo a tutti, anche agli sconosciuti. Però una cosa è parlarne, un'altra è realizzare un libro, e soprattutto un libro a fumetti: avevo molti dubbi, così ho deciso di mandare alcune tavole a Komikazen (un concorso per giovani fumettisti dell'associazione Mirada di Ravenna): è un concorso piuttosto rinomato nel mondo del fumetto, e a me interessava avere un parere, sapere se secondo qualcun altro era una buona idea fare questo libro. E poi ho avuto anche un vero editore che mi ha seguito molto da vicino: in fondo io non avevo mai fatto niente del genere prima, ho dovuto imparare. All'inizio comunque volevo dare una testimonianza, pensavo di raccontare le cose in maniera molto oggettiva. Poi mi sono reso conto che dovevo ripercorrere tutti quei cinque anni, tutte le emozioni che avevo provato, perché il libro fosse sincero. È stato abbastanza doloroso rivivere e disegnare la prima metà della storia, mentre la seconda parte era ancora fresca nella memoria, quindi più facile da realizzare.

Non ti è mai venuta l’idea di far rivivere tuo padre in un fumetto? Quale tratto useresti in quel caso, descrittivo, evocativo, ironico? O addirittura sceglieresti un’altra forma di espressione?
No, non sento questa necessità, veramente. Anche nel Diario ho evitato di mostrare mio padre com'era “prima”, sarebbe stato troppo personale e poi non so se avrebbe aggiunto qualcosa... volevo solo raccontare come vive una persona in quelle condizioni e come reagisce chi gli sta vicino, in questo caso un figlio. Que-sto aspetto poteva avere una valenza generale, non solo personale, per cui ho “isolato” la mia esperienza in quella determinata situazione. È il motivo, per esempio, per cui mia mamma e mia sorella non compaiono nel libro. Quindi è un'autobiografia fino a un certo punto: quello che ho raccontato è tutto vero, ma ci sono anche altre parti di me che non sono finite nel libro.

Quando hai realizzato di aver prodotto il più alto contributo – per delicatezza e neutralità – al dibattito più attuale e doloroso della scelta della “fine vita”?
Io volevo provare a dare una base a questo dibattito, a dire “Ma sapete di cosa parliamo quando parliamo di stato vegetativo?”. Mi interessava questo, dare un'informazione corretta, poi ognuno è libero di costruirsi una sua idea. Per questo il libro doveva essere innanzitutto sincero, e infatti dentro ci sono tutti i miei dubbi e le mie paure: penso che questa onestà si percepisca, e mi ha fatto molto piacere che il libro sia piaciuto sia a Beppino Englaro che a Fulvio De Nigris, due persone che hanno opinioni opposte sull'argomento. Nel libro io non prendo posizione fra le due parti, ma è chiaro che ho una mia idea: penso che ognuno debba essere libero di scegliere, però la scelta dev'essere consapevole (quindi bisogna informarsi) e non deve essere dettata da fattori esterni, come la mancanza di strutture adeguate o di soldi (perché assistere queste persone in molti casi costa).

È più una forza intellettuale o emotiva che traduce una valanga di emozioni in un tratto così semplice, elegante ed efficace?
Penso che sia un mix di entrambe le cose... o semplicemente questo è il mio modo di disegnare, almeno lo è stato per questo libro. A rivederlo adesso mi sembra un tratto molto acerbo, anche un po' infantile, del resto
è il mio primo libro... però è anche giusto che sia così, visto che è la storia di un figlio.

Questo è un romanzo di formazione, di crescita, una storia che fa riflettere e imparare: in primis, un buon atteggiamento verso la vita. Qual è stato invece il romanzo che ha formato te? E quale il fumetto che ha ispirato il tuo tratto?
Forse sembrerà un po' strano, ma è ancora il primo libro che ho letto: il Grande Gigante Gentile di Roald Dahl, con le illustrazioni di Quentin Blake. È un libro che fa ridere, commuovere, spaventare e pensare allo stesso tempo, e poi ci sono dei disegni meravigliosi. All'epoca avevo 8 anni e abitavo in un paesino sugli Appennini in provincia di Bologna: un giorno aprì la biblioteca del paese e per Natale regalarono un libro a tutti i bambini: ame capitò il GGG! È una cosa di cui vado molto fiero, e penso davvero che se non l'avessi letto allora, adesso sarei una persona diversa. Per il Diario, però, sicuramente mi è stato molto utile “Il grande male” di David B., secondo me uno dei fumettistimigliori al momento: in questo libro racconta dell'epilessia del fratello, “il grande male” appunto, quindi mi ha aiutato a capire come si racconta la malattia. Graficamente però il disegno di David B. è molto diverso dal mio, e poi lui è molto più bravo. Mi è servito tanto anche leggere Primo Levi, uno dei miei scrittori preferiti, per capire come si raccontano cose delicatissime e personali con il giusto equilibrio fra distacco e partecipazione.

Com’è nata l’esigenza di esprimersi con il fumetto? E su quali temi era orientata questa scelta all’inizio? Per il futuro, invece, quali sono i tuoi progetti in questo campo?
Per me testi e disegni sono sempre andati di pari passo, anche se non ho mai studiato arte ho continuato a disegnare per i fatti miei, quindi mi viene naturale esprimermi così. In questo caso però usare il fumetto aveva anche un altro senso. Di solito una persona in coma viene raffigurata come una persona che dorme, è un'immagine standard che vediamo ogni giorno al cinema o in tv. Avevo anch'io in testa quest'immagine, e ho provato rabbia quando mi sono accorto che la realtà (almeno la realtà dello stato vegetativo) è totalmente diversa. Mi interessava rispondere a questa immagine, “far vedere” quello che ho visto io. Però era impossibile farlo con un disegno realistico, sarebbe stato offensivo. Quindi ho disegnato mio padre, e gli altri malati come lui, con uno stile il più possibile neutro. Poi questo è diventato il tema centrale del libro: ho potuto rendere anche graficamente la mia sensazione di “non riconoscerlo”, di non trovare corrispondenza fra la persona distesa nel letto d'ospedale e mio padre come me lo ricordavo io.
Attualmente sto iniziando a lavorare a un nuovo libro. L'argomento è ancora top secret, ma questa volta non sarà autobiografico. Nel frattempo vorrei fare qualche storia breve (come "I gatti degli inglesi", che ho pubblicato sul mio blog) e illustrazioni... qualche richiesta è già arrivata dopo la pubblicazione del Diario.

Infine, un tuo parere da professionista nel campo dell’editoria: cosa pensi del fumetto digitale?
Personalmente penso che il libro, e quindi anche il libro a fumetti, sia una tecnologia migliore del libro elettronico: costa molto meno, si può portare dovunque, se si rovina non è un dramma e leggere sulla carta è molto meno faticoso che leggere su uno schermo. Però non vuol dire che il digitale non offra opportunità. Per quanto riguarda il fumetto, penso che funzioni molto bene per le strisce: ad esempio Doonesbury, la strip di Garry B. Trudeau, ha un bellissimo sito e leggere ogni mattina la striscia del giorno non è affatto male. I vari blog e Tumblr invece sono perfetti per la promozione dei nuovi autori (ne ho uno anch'io, si chiama “Pensieri di ieri”, (http://pensieridieri.blogspot.com/)... in generale comunque sul web è tutto piuttosto rapido, per cui penso che anche nel campo del disegno siano più efficaci le vignette, le singole illustrazioni e le storie molto brevi. Ma per le narrazioni lunghe il libro è ancora insuperato.

Articolo uscito sul numero 13/2011 della rivista Satura

lunedì 7 febbraio 2011

Screen/ing - La versione di Barney, Il discorso del re, Hereafter, Biutiful


Sinteticamente...

Il discorso del re
Imperdibile. Da chi ama i romanzi storici, da chi pensa che la compagna di Tim Burton scelga difficilmente ruoli che non meritano, da chi ha voglia di godersi un po' di sano humour inglese.

La versione di Barney
Da vedere. Anche se, come si poteva immaginare, non regge il confronto con il libro, che pare essere piaciuto al solo mercato italiano, tanto da sostituire la rive gauche con una Roma da artististoidi coatti (in cui includere la naturalmente pessima recitazione di uno dei noatri). 

Hereafter
L'uomo dagli occhi di ghiaccio strappa lacrime senza troppo impegno: chi non piangerebbe davanti a un bambino che cerca-di-salvare-la-madre-dal-tunnel-della-droga-e-ne-rimane-ucciso? Inutile, direi.

Biutiful
Splendido. Ma sono una donna e pare che su questo Bardem incida non poco. Senza essere di parte, però, la recitazione è perfetta, così come sceneggiatura e regia (e se non avete visto altri film di Inarritu correte a rimediare). La risposta messicana a Hereafter non strappa solo lacrime: stravolge.

lunedì 10 gennaio 2011

Screen/ing Tamara Drewe

Cinematograficamente parlando, ho inaugurato il 2011 con Tamara Drewe, il nuovo film di Stephen Frears tratto dall'omonimo graphic novel di Posy Simmonds, che il Time sul sito ufficiale del film definisce "a capricious, deliciuos delight": niente da aggiungere, tranne... non perdetelo!