giovedì 21 ottobre 2010

L'intervista - SUALZO

Come anticipato prima dell'estate, ecco l'intervista realizzata per il numero 11/2010 della rivista "Satura".
Buona lettura!

THE MELODY AT NIGHT, WITH YOU:
SUALZO, L'IMPROVVISATORE
di Manuela Capelli




Quanti anni ci vogliono per scrivere un fumetto? O per studiare il sax? E per diventare famosi, avere la propria occasione di lasciare un segno nel mondo? Ma soprattutto: è importante davvero? La storia di Elia
Sabaz, “l’improvvisatore” del titolo, corre su binari paralleli con quella del suo autore, Sualzo, Antonio Vincenti all’anagrafe. Naturalmente perché si tratta di una sorta di autobiografia. Elia fa il maestro di
scuola, è un trentenne scapolo e insoddisfatto, alla disperata ricerca di 10 minuti di gloria in compagnia del suo amato sax. Capitolo dopo capitolo, perché qui il romanzo viene fuori anche nella forma, Elia si
fa seguire con passione nel suo viaggio alla scoperta di qualcosa di più rilevante. Complici un tratto pulito e una scrittura poetica, perché in fondo è questo che Sualzo fa: non solo disegna, ma scrive bene. Come
tutti i veri lettori. E che lui lo sia è chiaro: per le citazioni che antepone a ogni capitolo, per la resa strutturale dei personaggi, per l’accurata scelta delle parole.

È molto francese questa graphic novel, che oltretutto come spesso succede in questo campo è stata pubblicata prima in Francia e poi in Italia: nel tratto, in una certa caratterizzazione dei volti, nelle atmosfere. È anche estremamente cinematografica questa graphic novel: nella resa dei colori innanzitutto, ma anche nella storia, che potrebbe inserirsi nel filone calcato da Sliding doors e The family man. Solo che il gioco qui non è più cosa-sarebbe-successo-se…con cui suddetta filmografia ha già iniziato da anni
ad auto-citarsi. Qui alla domanda si risponde con i fatti invece che con vacue supposizioni che lasciano sempre, in fondo e comunque, un po’ di amaro in bocca.

E la risposta è un sospiro di sollievo. La gloria non è tutto e la vita, se sai improvvisare, può riservare magnifiche sorprese. Come un’e-mail di Gipi – il maestro cui hai lasciato il tuo primo romanzo da leggere - da utilizzare come prefazione, o come il Prix Meilleur scenario nel 2009, il premio per la miglior sceneggiatura del Festi’BD di Moulins e la candidatura per il premio Micheluzzi come miglior fumetto al Comicon di Napoli 2010. È, infine, favolosamente romantica, questa graphic novel. Non solo perché Sualzo
fa del sogno il vero protagonista (bilanciandolo sapientemente con una piacevole ironia), ma perché utilizza le
poesie della moglie, Silvia Vecchini, per corredare il suo testo. Del resto per lui solo la famiglia è importante quanto il jazz: come Keith Jarrett, rinato a nuova vita dedica alla moglie “My melody at night, with you”, si può dire che anche per la nascita del Sualzo fumettista si deve ringraziare una donna. Almeno sulla
carta: ed è proprio sulle note di Jarrett che, nell’Improvvisatore, Elia e Giuditta – Silvia Vecchini in panni di inchiostro - si fondono artisticamente.

Partiamo dagli esordi. Com’è nato il Sualzo fumettista?
Il fumetto è una passione che mi accompagna da una vita,mami sono deciso abbastanza tardi a provarci seriamente. A parte una breve parentesi nei primi anni 90 con un gruppo legato alla satira (sono stato uno dei componenti del manipolo di giovani scapestrati allevati dal grande e rimpianto Angese), direi che il Sualzo fumettista nasce nel 2000, proprio in coincidenza al mio trasferimento al lago Trasimeno, che del Sualzo inteso come animale è l’habitat naturale (“Sualzo” nel nostro dialetto lacustre indica l’uccello acquatico “Svasso”).

Quali sono le principali influenze nel tuo lavoro? In campo letterario e cinematografico, per esempio. Le citazioni nel libro ti direbbero lettore onnivoro: da Goethe a Pessoa a Bloch (Arthur, l’autore statunitense famoso per la Legge di Murphy). Mentre al cinema, ne “L’improvvisatore” danno Annie, di Woody Allen…
Sì, credo di essere un lettore onnivoro con una speciale predilezione per la mescolanza tra alto e basso, cosa che cerco sempre di riprodurre anche nelle cose che scrivo. Dal punto di vista fumettistico sono stato folgorato da tutta la “nouvelle vague” francese affacciatasi nel decennio scorso, Dupuy e Berberian in testa; sia dal punto di vista grafico sia per l’approccio alla storia. Profondo e lieve allo stesso tempo, intenso ma capace, quando serve, di non prendersi troppo sul serio. Alto e basso insomma, come piace a me. Le influenze sono comunque moltissime e continue, dalla letteratura, dal cinema, dalla musica, dalla poesia, tutto entra nel mio modo di raccontare le storie.

Per il dizionario Zanichelli “improvvisare” significa “tenere un discorso, comporre versi,musica per immediata ispirazione, senza studio o preparazione”. Questa definizione unisce oratoria, poesia e musica. Dando per assunto che siano arti in cui ci si deve saper destreggiare. Bisogna aggiungervi il fumetto? O la vita in generale?
Ecco, tanto per non prendersi troppo sul serio, mi sentirei di contestare la definizione dello Zanichelli... non è affatto vero che in musica (ma credo anche nelle altre arti) si possa improvvisare senza studio o preparazione. Anzi, l’improvvisazione ti obbliga a studiare moltissimo perchè tu possa essere in grado di scegliere le note da usare e quando, senza invece essere obbligato dai tuoi limiti a ripetere sempre le stesse cose. Pensandola così, credo proprio che si possa estendere questa visione al fumetto e alla vita in generale.

Una delle cose che mi sono piaciute di più del tuo romanzo è che si tratta – nonostante i tentativi iniziali di Elia - di un “elogio della normalità”: una vita semplice, che proprio per questo sottolinea come tutte possano essere ricche. Il tuo protagonista è un eroe del quotidiano. È sufficiente saper improvvisare?
Come dicevo prima, ci vuole una grande preparazione per improvvisare, poi è logico che nel libro c’è il gioco di parole tra questa accezione e quella, più condivisa, di “improvvisare” come quasi brancolare tra cose sconosciute nella speranza di venirne a capo. Il mio “eroe del quotidiano” come lo chiami tu si rende conto che sta oscillando tra questi due aspetti, e si rende conto che crescere un po’, impegnarsi di più, non vuol dire rinunciare all’improvvisazione comemodo di essere ma, al contrario, significa portarla ad un livello superiore e sicuramente più soddisfacente.



Passiamo alla tecnica. Scrivi nel tuo blog: “non so fare le scene notturne. O meglio, non riescomi sembrano sempre o troppo buie o troppo luminose” ma ne “L’improvvisatore” ce ne sono moltissime, che per altro sono state commentate da un lettore francese come un’ottima traduzione dell’ambiente. Erano una sorta di tua esercitazione?
Quella frase era riferita alla mia attività parallela di illustratore acquarellista. Quel mezzo è una costante camminata sul filo, una sfida continua che non ammette errori o ripensamenti. Se non temessi di ripetermi fino alla nausea direi che è la cosa più simile all’improvvisazione così come l’ho descritta sopra. Invece per “L’improvvisatore” ho utilizzato una tecnica di colorazione digitale. Per una serie di motivi che vanno dalla velocità (era il mio primo libro e la paura di “rimanerci sotto” era alta) alla possibilità di essere aiutato da collaboratori, che si riconduce immediatamente al primo motivo. Detto questo è vero che il mio assurdo carattere mi porta a misurarmi quasi esclusivamente con le cose che io ritengo di non sapere fare o di non sapere fare bene. Se c’è un buono psicanalista si faccia avanti, grazie.

Fra le altre cose, realizzi illustrazioni, per le quali – leggo sempre nel tuo blog – hai ormai acquisito una sorta di tecnica, che nel fumetto invece non hai ancora ottenuto: in cosa consiste e perché ti è più difficile per il fumetto?
Per il motivo appena detto. Credo che il fumetto non mi sia così congeniale come l’illustrazione e quindi ci sbatto contro continuamente, come la mosca di Pazienza sulla lampadina. Sento di aver appena cominciato il discorso e la tecnica è in continua mutazione. Mi lascio suggestionare da molte cose e piango lacrime amarissime su quello fatto appena ieri. Trovo soluzioni definitive che durano lo spazio di un mattino. Ricomincio da capo (le prime sei tavole dell’Improvvisatore sono state disegnate 5 volte con tecniche sempre differenti), mi pento,
strepito. Mi diverto molto.

I dialoghi sono perfettamente calibrati, non diluiti in periodi monotoni, non concisi in frasi spezzate. La scelta delle parole è fondamentale sempre. Immagino che lo sia a maggior ragione per un appassionato di poesia. A che punto arrivano i dialoghi nel tuo percorso di lavorazione e come lo influenzano?
La poesia è un punto di riferimento importante nella mia scrittura. Forma e sostanza almassimo livello (la poesia, non la mia scrittura). Quando scrivo, i dialoghi arrivano prima di tutto il resto. Ho già detto altrove che la storia comincia quando comincio a “sentire le voci”. I personaggi mi si presentano solo attraverso la loro voce, e io cerco di lasciarli parlate tra di loro. Solo dopo un po’ comincio ad appuntare i dialoghi, ma solo quelli. Per molto tempo le mie storie sono solo personaggi che si parlano, la drammaturgia, se c’è, scaturisce tutta fuori dalle loro parole e dai loro silenzi.
Nella prima fase anche quando c’è una scena in cui qualche personaggio non parla, non scrivo nulla di quello che fa, scrivo solo che sta zitto.

...L'intervista continua sul numero 11/2010 di Satura e prossimamente su questo blog.
A presto,
Manuela

1 commento:

Giorgio Salati ha detto...

Grande Antonio!

Manuela, scopro ora che tu mi hai linkato sul tuo blog e io invece no! Rimedio subito!

ciao