martedì 18 dicembre 2012

Intervista a... Lorena Canottiere

L’irrazionalità e l’emotività di Lorena Canottiere

Intervista pubblicata su Satura n.13/2012


© Lorena Canottiere

Lorena Canottiere, un passato fumettistico che risale al Correrino, passa per il gruppo Struwwelpeter, Terre di Mezzo e ANIMALs, è famosa per il blog ça pousse (termine usato in francese per indicare i germogli che sbucano dalla terra e vigorosamente e in fretta crescono per diventare piante), la strip che, senza commenti e interferenze, dà voce al mondo visto dai bambini. Da un anno è però in libreria anche con il suo primo graphic novel, Oche- il sangue scorre nelle vene (Ed. Coconino Press), in cui mette in scena le storie di Henry, ex bambino-soldato della Sierra Leone, che a differenza dei genitori adottivi, non crede “veramente a questa strana famiglia”, di Nadia, che detesta la madre alcolizzata e indifferente, e di Davide, figlio di una borghesia che disprezza. Tre adolescenti che il destino unisce nella dura realtà di un pomeriggio di razzismo, ma anche nel sogno di cambiare le regole del gioco della vita.

Iniziamo proprio da Oche: Nel testo si dice: “Il porto, il mare, le navi, ho sempre pensato che le storie iniziassero in posti così”. Questa storia, invece, la tua prima graphic novel, come e dove è nata?
“Oche” è nato dalla proposta di Igort di scrivere una storia “lunga” per Coconino. In quel momento avevo già una storia in cinque capitoli, scritta e disegnata, che avevo iniziato per pura passione, ma come al solito presi la decisione più irrazionale (e penso vincente, in questo caso): lasciai quella nel cassetto e iniziai una nuova storia dal nulla. Sapevo solamente che volevo che parlasse in parte dei bambini soldato. Mi documentai con libri, articoli e documentari finché l'orrore mi impedì di dormire la notte. Decisi che volevo ambientare la vicenda in Occidente, nella nostra società, per poter raccontare il contrasto tra Africa ed Europa, delineai i personaggi e me li portai un po' “a spasso”. Penso sia importante per entrare nella storia (una sorta di conoscenza reciproca), poi partii direttamente con lo story-board, pagina dopo pagina, senza fermarmi. Avevo evidentemente bisogno di raccontare tutto quello che “Oche” contiene, non solo la vicenda di Henry, il bambino soldato.

Dove finisce l’ingenuità di Ça pousse nei bambini che diventano i “giovani già vecchi” nell’amarezza di Oche?
L'ingenuità dei bambini di “ça pousse”, che è la fantasia, la sincerità, la curiosità e l'entusiasmo verso la vita viene frenata dalla società adulta che non sa farsi carico di tutto ciò. Ha altri interessi e prerogative spesso lontane o addirittura conflittuali con il mondo infantile. Riferendomi ad “Oche” la situazione è ancora più estremizzata, descrive una società (la nostra, attuale) che non ha spazio per i ragazzi protagonisti della storia, né il coraggio di ascoltarli e tantomeno di capirli e rispondere ai loro bisogni. I giovani già vecchi sono bambini a cui non si sa offrire nulla e che, in molti casi, sono costretti a sostituirsi a genitori assenti o che non sanno fare gli adulti, rifuggono il loro ruolo, non sanno che farsene di se stessi né tantomeno dei figli.

Torino negli occhi di un adolescente o nei tuoi occhi, perché forse loro non la vedono neanche e sognano il mare, il suo significato di spostamento, mentre tu riproduci il tuo sguardo sulla città… Con inquadrature che ne sottolineano sempre la bellezza.. il Po, i portici… i palazzi…
I ragazzi di “Oche” non si curano di Torino, vorrebbero fuggire dalla città e dalle loro vite. È un'ottima cosa volersene andare via da adolescenti, anche senza dover scappare da situazioni familiari difficili. Io sono arrivata a Torino da poco tempo. Ho vissuto in diverse città, dopo quella d'origine. A Torino mi trovo bene: è una bella città, vivibile, umana, buffa, multietnica, viva ma anche celata, colta, un po' operaia e un po' sabauda. Esistono diverse città, una incastrata nell'altra, ma i contrasti si mischiano come le tante lingue parlate per strada. Inoltre è bellissimo disegnarla, perché è particolare e varia. Ricorda in gran parte Parigi, la sera l'illuminazione la trasforma in estati spagnole, c'è il fiume, più nordico, con i circoli di canottaggio e i parchi, la parte occulta medievale e la periferia, vecchia e nuova, i quartieri Fiat degli operai e dei colletti bianchi... È stato impossibile disegnare una città qualunque, una città inventata, che rappresentasse esclusivamente l'idea di città, come avevo pensato di fare iniziando “Oche”, avendo sotto gli occhi Torino.


© Lorena Canottiere


Colgo ancora un paio di battute dal tuo libro: “È come dire che tutti i pianisti destri si sono un po’ fregati la vita”. Quanto il talento e quanto la tecnica valgono nel fare fumetto?
Il fumetto è un mezzo espressivo complesso, con possibilità narrative molto vaste. Per imparare ad usarlo si studiano cinema, letteratura, pittura, teatro per cui un certo livello di capacità e conoscenza del linguaggio ci vuole, ma non credo che tecnica e talento siano così importanti. Almeno, a me non interessano granché. Ci sono altri aspetti che ritengo più importanti come l'espressività, la capacità di raccontare emotivamente una storia (sia attraverso le immagini che i testi). Talento e tecnica servono per affrontare il percorso, sono un punto di partenza, che però ad un certo punto deve evolvere o addirittura decadere, per lasciare posto a nuovi aspetti espressivi indispensabili al percorso artistico individuale.

“L’idea di occupare uno spazio preciso, delimitabile, codificabile mi soffoca”. Sono parole di Henry. Valgono anche per uno scrittore?
Ciascuno ha il proprio modo di scrivere. Il mio compagno, ad esempio, è musicista e quando inizia a scrivere un pezzo non si occupa d'altro fino a quando non lo ha finito. Io non potrei. In una situazione del genere mi sentirei soffocare come Henry. Io ho bisogno di divagare, di guardare la storia con la coda dell'occhio, non averla sempre di fronte. Ho bisogno che il mondo passi in mezzo alle idee e mi distragga: non so perché, forse così riesco a tener stretto l'indispensabile.

Passando alla tecnica… Il tratto che utilizzi… tutto tratteggio, senza aree di colore piene… come l’hai scelto, e perché e quali sono i tuoi riferimenti in questo campo, se ce ne sono?
Penso che l'uso del tratteggio così fine e fitto mi sia arrivato dall'uso delle matite colorate. È buffo, adesso che ci penso: sono passata da un segno a pennino netto e forte ad uno più sottile, costruito da tanti segni fini, che creano volumi per sovrapposizione, mentre per le matite è stato esattamente il contrario. Sono passata da un uso più leggero, pulito della matita colorata a cercare segni più decisi, espressivi. Ho sempre amato sia il pennino che le matite, come tecniche di disegno, ma con il tempo è cambiato radicalmente il mio modo di usarle e sono convinta che cambierà ancora. Non mi fido di chi rimane fermo, non cambia, non cresce. È come non porsi dubbi o prendersi troppo sul serio: non potrei mai.

In Oche il colore nasce solo nei sogni di Nadia, benché all’inizio siano incubi alla stregua dei ricordi di Henry. Come mai?
Il testo dei sogni di Nadia è parte del racconto "Il demonio è cane bianco" di Sergio Atzeni , uno scrittore che amo particolarmente. È un racconto duro, visionario, che la mia mente ha subito tradotto in immagini a colore. Inoltre la vita di Nadia è desolante e il suo solo rifugio è quel sogno che si ripete, un sogno di fuga, di libertà : ci nasconde tutta se stessa e la speranza , che consciamente non sa neppure di avere dentro. Per tutti questi motivi la parte a colori del libro è la parte del sogno, non c'è stato neanche il bisogno di pensarci, di prendere una decisione.


© Lorena Canottiere


Cosa pensi del colore della cover? Eri d’accordo con questa esplosione di luminosità? L’artwork è tuo, ho letto, ma il design no.
Effettivamente può sembrare in contrasto con il resto del libro. “Oche” racconta del disagio dei tre giovani protagonisti, di una società che li respinge, che non ha posto per loro. Non c'è però solo questo, c'è un passaggio di consapevolezza, c'è il loro riscatto grazie alla scoperta dell'altro e di una propria valenza personale. Su questa base abbiamo scelto quella copertina. Ha partecipato la redazione intera alla discussione, perché quell'immagine non è convenzionale, come taglio, per una copertina. Alla fine è stata scelta proprio per la sua forza, per i colori. C'era un'altra copertina in lizza, più narrativa, ma questa era emotivamente più forte.


© Lorena Canottiere


Avevo letto in una precedente intervista che ami disegnare su carta. È sempre vero o sei poi passata alla tavoletta grafica? Qual è il tuo modo di procedere?
Uso la tavoletta grafica per pochissime cose, più estemporanee, e per colorare a computer, ma mi piace immensamente di più disegnare su carta. Amo l'attrito del pennino, del pennello, della matita sulla carta, gli odori, i tempi e gli imprevisti, le imperfezioni che rimangono sulla tavola. La fase del passaggio a china, ad esempio, è un momento che adoro e non vorrei privarmene. Si ottengono risultati molto differenti disegnando in modo “tradizionale” o a computer e penso si debbano usare i due metodi così, per ricercare mondi diversi, non escludendone uno in favore dell'altro.

Strip e graphic novel… per “consuetudine” la prima pare strumento ideale per l’umorismo, la seconda per storie di maggior spessore. E così è anche nel tuo caso. Il contrario è possibile? si può, soprattutto, far emozionare in poche vignette, o il dolore ha bisogno di tempi più lunghi?
La differenza sta soprattutto nella scelta del modo di raccontare, dal tono, ma se la satira è considerata ovunque, in tutto il mondo, pericolosa e scatena minori o maggiori reazioni di fastidio da parte di chi gestisce il potere, il motivo è proprio perché riesce a dire in maniera molto semplice e diretta ciò che filosofi, letterati, politici, etc, teorizzano in modo più profondo e sofisticato. Il concetto rimane invariato e a volte il potere emotivo ne esce addirittura rafforzato. Il fatto che la striscia susciti una risata non sta a significare assolutamente che racconti storie allegre: spesso ridiamo amaramente delle nostre vite, le nostre angherie, i nostri difetti e il fatto che la striscia le riesca a raccontare in maniera ridicola, ironica, non vuol affatto dire che non ci racconti un dolore. Ha un linguaggio irriverente e spesso per questo riesce ad essere più saggia ed arguta di un “opera drammatica” come ad esempio, riferendomi alla tua domanda, di una graphic novel.

Sempre a proposito di strip, in particolare legate al mondo dell’infanzia, si potrebbe dire che a volte sono vere e proprie maestre di vita. “Ogni volta che sento gli adulti parlare di cose inutili mi spavento”. Questa è una frase presa da Oche, ma la raccolgo per farti una domanda su Ça pousse. I bambini possono far riflettere di più?
“ça pousse” è un progetto nato per puro divertimento personale. Ho iniziato ridendo per ciò che dicevano mio figlio e i suoi amici e poi mi sono resa conto che c'era molto di più di una risata. I bambini descrivono il mondo, i nostri atteggiamenti, le abitudini, le convinzioni degli adulti in maniera arguta, saggia, dissacrante, senza tabù né compromessi. In questo modo ci portano a riflettere su cose che, da adulti, diamo per scontate, vere e irrefutabili, ma che non hanno nessun buon motivo per essere ritenute tali. Per questo motivo ho iniziato a disegnarle sotto forma di strisce, che prima hanno trovato posto sul blog omonimo e che sono approdate poi alla rivista ANIMAls e infine sono state raccolte in un libro (“Marmocchi”) che esce contemporaneamente in Italia, Spagna e Francia.

Proprio a proposito dell’iter dal blog a “Marmocchi”: quali differenze ci possono essere fra la lettura online, di un blog, nello specifico, e quella su carta?
La differenza grande tra pubblicare on line su un blog o su carta è il contatto diretto con i lettori. Attraverso il blog si può dialogare con i lettori attraverso i commenti ai post; scambiare pareri più approfonditi tramite mail (tante strisce mi sono state raccontate così, dai lettori di “ça pousse”). È possibile anche consigliare il link di siti amici, che ampliano conoscenze e arricchiscono lo scambio con il pubblico; ci sono i collegamenti diretti con i siti, o i profili dei lettori che seguono il blog... Ciascun blog è una finestra, un contenitore che ci permette di passare da un sito all'altro, da un racconto all'altro dandoci la possibilità di costruire un mondo nostro, più vasto, più completo. Il difetto della lettura on line è la possibilità di perdersi. Il libro su carta, viceversa, ci assicura una concentrazione assoluta su ciò che si sta leggendo, ci permette di calarci nella maniera più profonda possibile nel mondo di chi racconta: ciascun libro (su carta) racconta una vita, un'avventura. Pro e contro. Il blog fa sentire meno soli gli autori, c'è un riscontro facile col pubblico, mentre quando si pubblica un libro su carta, se non si incontrano i lettori alle presentazioni o lo si vede recensito, si ha la sensazione (e la paura) che nessuno lo abbia letto. Il libro su carta regala altri due aspetti per me fondamentali: il contatto fisico e il fatto che ti possa seguire ovunque. Un libro di carta lo si può leggere su una spiaggia deserta, in mezzo al bosco, pigiati nel caos dei mezzi pubblici, in coda in posta e di straforo ad un convegno noioso. Ti segue dappertutto e la sua lucina luminosa, da uscita d'emergenza, non si scarica mai- EXIT - e sei da un'altra parte.

© Lorena Canottiere


Per concludere: Cosa consiglieresti oggi a una donna che volesse intraprendere questa carriera?
A chi volesse cominciare a fare fumetti, uomo o donna (non è un ambiente sessista per cui lascerei da parte le distinzioni di genere, sperando di non doverle mai usare) consiglio di essere curiosi, di cibarsi di libri, cinema, teatro, mostre, ma anche del quotidiano che ci circonda, di essere coraggiosi e di mettere avanti ad ogni cosa il piacere del proprio lavoro; di ascoltare le proprie urgenze narrative e di divertirsi a realizzarle; e di prepararsi a “studiare” tutta la vita, perché fare fumetti vuol dire ricercare sempre ed evolversi di conseguenza.

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