L'anno scorso è iniziata una nuova collaborazione: dalla brevisione del fumetto vincitore del Project Contest di Lucca 2012 alle domande ad Alessandro Bacchetta e Davide Cali, d'ora in poi potete leggere le mie interviste e alcune recensioni sul sito de Lo Spazio Bianco.
Ci vediamo (anche) lì!
M!
(scrittricetraduttricesceneggiatriceinpocheparolecomunicatrice)
martedì 25 febbraio 2014
venerdì 20 dicembre 2013
lunedì 10 giugno 2013
traducendo... Yaxin e Haddon Hall
Bao Publishing porta in Italia due bellissime opere: Yaxin, il fauno Gabriele, Canto I, di Dimitri Vey e Man Arenas, pubblicato in Francia dalla collana Metamorphose di Soleil edizioni
e Haddon Hall di Najib, pubblicato in Francia da Gallimard.
Io li ho tradotti.
Voi leggeteli e fatemi sapere se vi piacciono come sono piaciuti a me!
venerdì 21 dicembre 2012
martedì 18 dicembre 2012
Intervista a... Lorena Canottiere
L’irrazionalità e l’emotività di Lorena Canottiere
Intervista pubblicata su Satura n.13/2012
Lorena Canottiere, un passato fumettistico che risale al Correrino, passa per il gruppo Struwwelpeter, Terre di Mezzo e ANIMALs, è famosa per il blog ça pousse (termine usato in francese per indicare i germogli che sbucano dalla terra e vigorosamente e in fretta crescono per diventare piante), la strip che, senza commenti e interferenze, dà voce al mondo visto dai bambini. Da un anno è però in libreria anche con il suo primo graphic novel, Oche- il sangue scorre nelle vene (Ed. Coconino Press), in cui mette in scena le storie di Henry, ex bambino-soldato della Sierra Leone, che a differenza dei genitori adottivi, non crede “veramente a questa strana famiglia”, di Nadia, che detesta la madre alcolizzata e indifferente, e di Davide, figlio di una borghesia che disprezza. Tre adolescenti che il destino unisce nella dura realtà di un pomeriggio di razzismo, ma anche nel sogno di cambiare le regole del gioco della vita.
Iniziamo proprio da Oche: Nel testo si dice: “Il porto, il mare, le navi, ho sempre pensato che le storie iniziassero in posti così”. Questa storia, invece, la tua prima graphic novel, come e dove è nata?
“Oche” è nato dalla proposta di Igort di scrivere una storia “lunga” per Coconino. In quel momento avevo già una storia in cinque capitoli, scritta e disegnata, che avevo iniziato per pura passione, ma come al solito presi la decisione più irrazionale (e penso vincente, in questo caso): lasciai quella nel cassetto e iniziai una nuova storia dal nulla. Sapevo solamente che volevo che parlasse in parte dei bambini soldato. Mi documentai con libri, articoli e documentari finché l'orrore mi impedì di dormire la notte. Decisi che volevo ambientare la vicenda in Occidente, nella nostra società, per poter raccontare il contrasto tra Africa ed Europa, delineai i personaggi e me li portai un po' “a spasso”. Penso sia importante per entrare nella storia (una sorta di conoscenza reciproca), poi partii direttamente con lo story-board, pagina dopo pagina, senza fermarmi. Avevo evidentemente bisogno di raccontare tutto quello che “Oche” contiene, non solo la vicenda di Henry, il bambino soldato.
Dove finisce l’ingenuità di Ça pousse nei bambini che diventano i “giovani già vecchi” nell’amarezza di Oche?
L'ingenuità dei bambini di “ça pousse”, che è la fantasia, la sincerità, la curiosità e l'entusiasmo verso la vita viene frenata dalla società adulta che non sa farsi carico di tutto ciò. Ha altri interessi e prerogative spesso lontane o addirittura conflittuali con il mondo infantile. Riferendomi ad “Oche” la situazione è ancora più estremizzata, descrive una società (la nostra, attuale) che non ha spazio per i ragazzi protagonisti della storia, né il coraggio di ascoltarli e tantomeno di capirli e rispondere ai loro bisogni. I giovani già vecchi sono bambini a cui non si sa offrire nulla e che, in molti casi, sono costretti a sostituirsi a genitori assenti o che non sanno fare gli adulti, rifuggono il loro ruolo, non sanno che farsene di se stessi né tantomeno dei figli.
Torino negli occhi di un adolescente o nei tuoi occhi, perché forse loro non la vedono neanche e sognano il mare, il suo significato di spostamento, mentre tu riproduci il tuo sguardo sulla città… Con inquadrature che ne sottolineano sempre la bellezza.. il Po, i portici… i palazzi…
I ragazzi di “Oche” non si curano di Torino, vorrebbero fuggire dalla città e dalle loro vite. È un'ottima cosa volersene andare via da adolescenti, anche senza dover scappare da situazioni familiari difficili. Io sono arrivata a Torino da poco tempo. Ho vissuto in diverse città, dopo quella d'origine. A Torino mi trovo bene: è una bella città, vivibile, umana, buffa, multietnica, viva ma anche celata, colta, un po' operaia e un po' sabauda. Esistono diverse città, una incastrata nell'altra, ma i contrasti si mischiano come le tante lingue parlate per strada. Inoltre è bellissimo disegnarla, perché è particolare e varia. Ricorda in gran parte Parigi, la sera l'illuminazione la trasforma in estati spagnole, c'è il fiume, più nordico, con i circoli di canottaggio e i parchi, la parte occulta medievale e la periferia, vecchia e nuova, i quartieri Fiat degli operai e dei colletti bianchi... È stato impossibile disegnare una città qualunque, una città inventata, che rappresentasse esclusivamente l'idea di città, come avevo pensato di fare iniziando “Oche”, avendo sotto gli occhi Torino.
Colgo ancora un paio di battute dal tuo libro: “È come dire che tutti i pianisti destri si sono un po’ fregati la vita”. Quanto il talento e quanto la tecnica valgono nel fare fumetto?
Il fumetto è un mezzo espressivo complesso, con possibilità narrative molto vaste. Per imparare ad usarlo si studiano cinema, letteratura, pittura, teatro per cui un certo livello di capacità e conoscenza del linguaggio ci vuole, ma non credo che tecnica e talento siano così importanti. Almeno, a me non interessano granché. Ci sono altri aspetti che ritengo più importanti come l'espressività, la capacità di raccontare emotivamente una storia (sia attraverso le immagini che i testi). Talento e tecnica servono per affrontare il percorso, sono un punto di partenza, che però ad un certo punto deve evolvere o addirittura decadere, per lasciare posto a nuovi aspetti espressivi indispensabili al percorso artistico individuale.
“L’idea di occupare uno spazio preciso, delimitabile, codificabile mi soffoca”. Sono parole di Henry. Valgono anche per uno scrittore?
Ciascuno ha il proprio modo di scrivere. Il mio compagno, ad esempio, è musicista e quando inizia a scrivere un pezzo non si occupa d'altro fino a quando non lo ha finito. Io non potrei. In una situazione del genere mi sentirei soffocare come Henry. Io ho bisogno di divagare, di guardare la storia con la coda dell'occhio, non averla sempre di fronte. Ho bisogno che il mondo passi in mezzo alle idee e mi distragga: non so perché, forse così riesco a tener stretto l'indispensabile.
Passando alla tecnica… Il tratto che utilizzi… tutto tratteggio, senza aree di colore piene… come l’hai scelto, e perché e quali sono i tuoi riferimenti in questo campo, se ce ne sono?
Penso che l'uso del tratteggio così fine e fitto mi sia arrivato dall'uso delle matite colorate. È buffo, adesso che ci penso: sono passata da un segno a pennino netto e forte ad uno più sottile, costruito da tanti segni fini, che creano volumi per sovrapposizione, mentre per le matite è stato esattamente il contrario. Sono passata da un uso più leggero, pulito della matita colorata a cercare segni più decisi, espressivi. Ho sempre amato sia il pennino che le matite, come tecniche di disegno, ma con il tempo è cambiato radicalmente il mio modo di usarle e sono convinta che cambierà ancora. Non mi fido di chi rimane fermo, non cambia, non cresce. È come non porsi dubbi o prendersi troppo sul serio: non potrei mai.
In Oche il colore nasce solo nei sogni di Nadia, benché all’inizio siano incubi alla stregua dei ricordi di Henry. Come mai?
Il testo dei sogni di Nadia è parte del racconto "Il demonio è cane bianco" di Sergio Atzeni , uno scrittore che amo particolarmente. È un racconto duro, visionario, che la mia mente ha subito tradotto in immagini a colore. Inoltre la vita di Nadia è desolante e il suo solo rifugio è quel sogno che si ripete, un sogno di fuga, di libertà : ci nasconde tutta se stessa e la speranza , che consciamente non sa neppure di avere dentro. Per tutti questi motivi la parte a colori del libro è la parte del sogno, non c'è stato neanche il bisogno di pensarci, di prendere una decisione.
Cosa pensi del colore della cover? Eri d’accordo con questa esplosione di luminosità? L’artwork è tuo, ho letto, ma il design no.
Effettivamente può sembrare in contrasto con il resto del libro. “Oche” racconta del disagio dei tre giovani protagonisti, di una società che li respinge, che non ha posto per loro. Non c'è però solo questo, c'è un passaggio di consapevolezza, c'è il loro riscatto grazie alla scoperta dell'altro e di una propria valenza personale. Su questa base abbiamo scelto quella copertina. Ha partecipato la redazione intera alla discussione, perché quell'immagine non è convenzionale, come taglio, per una copertina. Alla fine è stata scelta proprio per la sua forza, per i colori. C'era un'altra copertina in lizza, più narrativa, ma questa era emotivamente più forte.
Avevo letto in una precedente intervista che ami disegnare su carta. È sempre vero o sei poi passata alla tavoletta grafica? Qual è il tuo modo di procedere?
Uso la tavoletta grafica per pochissime cose, più estemporanee, e per colorare a computer, ma mi piace immensamente di più disegnare su carta. Amo l'attrito del pennino, del pennello, della matita sulla carta, gli odori, i tempi e gli imprevisti, le imperfezioni che rimangono sulla tavola. La fase del passaggio a china, ad esempio, è un momento che adoro e non vorrei privarmene. Si ottengono risultati molto differenti disegnando in modo “tradizionale” o a computer e penso si debbano usare i due metodi così, per ricercare mondi diversi, non escludendone uno in favore dell'altro.
Strip e graphic novel… per “consuetudine” la prima pare strumento ideale per l’umorismo, la seconda per storie di maggior spessore. E così è anche nel tuo caso. Il contrario è possibile? si può, soprattutto, far emozionare in poche vignette, o il dolore ha bisogno di tempi più lunghi?
La differenza sta soprattutto nella scelta del modo di raccontare, dal tono, ma se la satira è considerata ovunque, in tutto il mondo, pericolosa e scatena minori o maggiori reazioni di fastidio da parte di chi gestisce il potere, il motivo è proprio perché riesce a dire in maniera molto semplice e diretta ciò che filosofi, letterati, politici, etc, teorizzano in modo più profondo e sofisticato. Il concetto rimane invariato e a volte il potere emotivo ne esce addirittura rafforzato. Il fatto che la striscia susciti una risata non sta a significare assolutamente che racconti storie allegre: spesso ridiamo amaramente delle nostre vite, le nostre angherie, i nostri difetti e il fatto che la striscia le riesca a raccontare in maniera ridicola, ironica, non vuol affatto dire che non ci racconti un dolore. Ha un linguaggio irriverente e spesso per questo riesce ad essere più saggia ed arguta di un “opera drammatica” come ad esempio, riferendomi alla tua domanda, di una graphic novel.
Sempre a proposito di strip, in particolare legate al mondo dell’infanzia, si potrebbe dire che a volte sono vere e proprie maestre di vita. “Ogni volta che sento gli adulti parlare di cose inutili mi spavento”. Questa è una frase presa da Oche, ma la raccolgo per farti una domanda su Ça pousse. I bambini possono far riflettere di più?
“ça pousse” è un progetto nato per puro divertimento personale. Ho iniziato ridendo per ciò che dicevano mio figlio e i suoi amici e poi mi sono resa conto che c'era molto di più di una risata. I bambini descrivono il mondo, i nostri atteggiamenti, le abitudini, le convinzioni degli adulti in maniera arguta, saggia, dissacrante, senza tabù né compromessi. In questo modo ci portano a riflettere su cose che, da adulti, diamo per scontate, vere e irrefutabili, ma che non hanno nessun buon motivo per essere ritenute tali. Per questo motivo ho iniziato a disegnarle sotto forma di strisce, che prima hanno trovato posto sul blog omonimo e che sono approdate poi alla rivista ANIMAls e infine sono state raccolte in un libro (“Marmocchi”) che esce contemporaneamente in Italia, Spagna e Francia.
Proprio a proposito dell’iter dal blog a “Marmocchi”: quali differenze ci possono essere fra la lettura online, di un blog, nello specifico, e quella su carta?
La differenza grande tra pubblicare on line su un blog o su carta è il contatto diretto con i lettori. Attraverso il blog si può dialogare con i lettori attraverso i commenti ai post; scambiare pareri più approfonditi tramite mail (tante strisce mi sono state raccontate così, dai lettori di “ça pousse”). È possibile anche consigliare il link di siti amici, che ampliano conoscenze e arricchiscono lo scambio con il pubblico; ci sono i collegamenti diretti con i siti, o i profili dei lettori che seguono il blog... Ciascun blog è una finestra, un contenitore che ci permette di passare da un sito all'altro, da un racconto all'altro dandoci la possibilità di costruire un mondo nostro, più vasto, più completo. Il difetto della lettura on line è la possibilità di perdersi. Il libro su carta, viceversa, ci assicura una concentrazione assoluta su ciò che si sta leggendo, ci permette di calarci nella maniera più profonda possibile nel mondo di chi racconta: ciascun libro (su carta) racconta una vita, un'avventura. Pro e contro. Il blog fa sentire meno soli gli autori, c'è un riscontro facile col pubblico, mentre quando si pubblica un libro su carta, se non si incontrano i lettori alle presentazioni o lo si vede recensito, si ha la sensazione (e la paura) che nessuno lo abbia letto. Il libro su carta regala altri due aspetti per me fondamentali: il contatto fisico e il fatto che ti possa seguire ovunque. Un libro di carta lo si può leggere su una spiaggia deserta, in mezzo al bosco, pigiati nel caos dei mezzi pubblici, in coda in posta e di straforo ad un convegno noioso. Ti segue dappertutto e la sua lucina luminosa, da uscita d'emergenza, non si scarica mai- EXIT - e sei da un'altra parte.
Per concludere: Cosa consiglieresti oggi a una donna che volesse intraprendere questa carriera?
A chi volesse cominciare a fare fumetti, uomo o donna (non è un ambiente sessista per cui lascerei da parte le distinzioni di genere, sperando di non doverle mai usare) consiglio di essere curiosi, di cibarsi di libri, cinema, teatro, mostre, ma anche del quotidiano che ci circonda, di essere coraggiosi e di mettere avanti ad ogni cosa il piacere del proprio lavoro; di ascoltare le proprie urgenze narrative e di divertirsi a realizzarle; e di prepararsi a “studiare” tutta la vita, perché fare fumetti vuol dire ricercare sempre ed evolversi di conseguenza.
Intervista pubblicata su Satura n.13/2012
© Lorena Canottiere
Lorena Canottiere, un passato fumettistico che risale al Correrino, passa per il gruppo Struwwelpeter, Terre di Mezzo e ANIMALs, è famosa per il blog ça pousse (termine usato in francese per indicare i germogli che sbucano dalla terra e vigorosamente e in fretta crescono per diventare piante), la strip che, senza commenti e interferenze, dà voce al mondo visto dai bambini. Da un anno è però in libreria anche con il suo primo graphic novel, Oche- il sangue scorre nelle vene (Ed. Coconino Press), in cui mette in scena le storie di Henry, ex bambino-soldato della Sierra Leone, che a differenza dei genitori adottivi, non crede “veramente a questa strana famiglia”, di Nadia, che detesta la madre alcolizzata e indifferente, e di Davide, figlio di una borghesia che disprezza. Tre adolescenti che il destino unisce nella dura realtà di un pomeriggio di razzismo, ma anche nel sogno di cambiare le regole del gioco della vita.
Iniziamo proprio da Oche: Nel testo si dice: “Il porto, il mare, le navi, ho sempre pensato che le storie iniziassero in posti così”. Questa storia, invece, la tua prima graphic novel, come e dove è nata?
“Oche” è nato dalla proposta di Igort di scrivere una storia “lunga” per Coconino. In quel momento avevo già una storia in cinque capitoli, scritta e disegnata, che avevo iniziato per pura passione, ma come al solito presi la decisione più irrazionale (e penso vincente, in questo caso): lasciai quella nel cassetto e iniziai una nuova storia dal nulla. Sapevo solamente che volevo che parlasse in parte dei bambini soldato. Mi documentai con libri, articoli e documentari finché l'orrore mi impedì di dormire la notte. Decisi che volevo ambientare la vicenda in Occidente, nella nostra società, per poter raccontare il contrasto tra Africa ed Europa, delineai i personaggi e me li portai un po' “a spasso”. Penso sia importante per entrare nella storia (una sorta di conoscenza reciproca), poi partii direttamente con lo story-board, pagina dopo pagina, senza fermarmi. Avevo evidentemente bisogno di raccontare tutto quello che “Oche” contiene, non solo la vicenda di Henry, il bambino soldato.
Dove finisce l’ingenuità di Ça pousse nei bambini che diventano i “giovani già vecchi” nell’amarezza di Oche?
L'ingenuità dei bambini di “ça pousse”, che è la fantasia, la sincerità, la curiosità e l'entusiasmo verso la vita viene frenata dalla società adulta che non sa farsi carico di tutto ciò. Ha altri interessi e prerogative spesso lontane o addirittura conflittuali con il mondo infantile. Riferendomi ad “Oche” la situazione è ancora più estremizzata, descrive una società (la nostra, attuale) che non ha spazio per i ragazzi protagonisti della storia, né il coraggio di ascoltarli e tantomeno di capirli e rispondere ai loro bisogni. I giovani già vecchi sono bambini a cui non si sa offrire nulla e che, in molti casi, sono costretti a sostituirsi a genitori assenti o che non sanno fare gli adulti, rifuggono il loro ruolo, non sanno che farsene di se stessi né tantomeno dei figli.
Torino negli occhi di un adolescente o nei tuoi occhi, perché forse loro non la vedono neanche e sognano il mare, il suo significato di spostamento, mentre tu riproduci il tuo sguardo sulla città… Con inquadrature che ne sottolineano sempre la bellezza.. il Po, i portici… i palazzi…
I ragazzi di “Oche” non si curano di Torino, vorrebbero fuggire dalla città e dalle loro vite. È un'ottima cosa volersene andare via da adolescenti, anche senza dover scappare da situazioni familiari difficili. Io sono arrivata a Torino da poco tempo. Ho vissuto in diverse città, dopo quella d'origine. A Torino mi trovo bene: è una bella città, vivibile, umana, buffa, multietnica, viva ma anche celata, colta, un po' operaia e un po' sabauda. Esistono diverse città, una incastrata nell'altra, ma i contrasti si mischiano come le tante lingue parlate per strada. Inoltre è bellissimo disegnarla, perché è particolare e varia. Ricorda in gran parte Parigi, la sera l'illuminazione la trasforma in estati spagnole, c'è il fiume, più nordico, con i circoli di canottaggio e i parchi, la parte occulta medievale e la periferia, vecchia e nuova, i quartieri Fiat degli operai e dei colletti bianchi... È stato impossibile disegnare una città qualunque, una città inventata, che rappresentasse esclusivamente l'idea di città, come avevo pensato di fare iniziando “Oche”, avendo sotto gli occhi Torino.
© Lorena Canottiere
Colgo ancora un paio di battute dal tuo libro: “È come dire che tutti i pianisti destri si sono un po’ fregati la vita”. Quanto il talento e quanto la tecnica valgono nel fare fumetto?
Il fumetto è un mezzo espressivo complesso, con possibilità narrative molto vaste. Per imparare ad usarlo si studiano cinema, letteratura, pittura, teatro per cui un certo livello di capacità e conoscenza del linguaggio ci vuole, ma non credo che tecnica e talento siano così importanti. Almeno, a me non interessano granché. Ci sono altri aspetti che ritengo più importanti come l'espressività, la capacità di raccontare emotivamente una storia (sia attraverso le immagini che i testi). Talento e tecnica servono per affrontare il percorso, sono un punto di partenza, che però ad un certo punto deve evolvere o addirittura decadere, per lasciare posto a nuovi aspetti espressivi indispensabili al percorso artistico individuale.
“L’idea di occupare uno spazio preciso, delimitabile, codificabile mi soffoca”. Sono parole di Henry. Valgono anche per uno scrittore?
Ciascuno ha il proprio modo di scrivere. Il mio compagno, ad esempio, è musicista e quando inizia a scrivere un pezzo non si occupa d'altro fino a quando non lo ha finito. Io non potrei. In una situazione del genere mi sentirei soffocare come Henry. Io ho bisogno di divagare, di guardare la storia con la coda dell'occhio, non averla sempre di fronte. Ho bisogno che il mondo passi in mezzo alle idee e mi distragga: non so perché, forse così riesco a tener stretto l'indispensabile.
Passando alla tecnica… Il tratto che utilizzi… tutto tratteggio, senza aree di colore piene… come l’hai scelto, e perché e quali sono i tuoi riferimenti in questo campo, se ce ne sono?
Penso che l'uso del tratteggio così fine e fitto mi sia arrivato dall'uso delle matite colorate. È buffo, adesso che ci penso: sono passata da un segno a pennino netto e forte ad uno più sottile, costruito da tanti segni fini, che creano volumi per sovrapposizione, mentre per le matite è stato esattamente il contrario. Sono passata da un uso più leggero, pulito della matita colorata a cercare segni più decisi, espressivi. Ho sempre amato sia il pennino che le matite, come tecniche di disegno, ma con il tempo è cambiato radicalmente il mio modo di usarle e sono convinta che cambierà ancora. Non mi fido di chi rimane fermo, non cambia, non cresce. È come non porsi dubbi o prendersi troppo sul serio: non potrei mai.
In Oche il colore nasce solo nei sogni di Nadia, benché all’inizio siano incubi alla stregua dei ricordi di Henry. Come mai?
Il testo dei sogni di Nadia è parte del racconto "Il demonio è cane bianco" di Sergio Atzeni , uno scrittore che amo particolarmente. È un racconto duro, visionario, che la mia mente ha subito tradotto in immagini a colore. Inoltre la vita di Nadia è desolante e il suo solo rifugio è quel sogno che si ripete, un sogno di fuga, di libertà : ci nasconde tutta se stessa e la speranza , che consciamente non sa neppure di avere dentro. Per tutti questi motivi la parte a colori del libro è la parte del sogno, non c'è stato neanche il bisogno di pensarci, di prendere una decisione.
© Lorena Canottiere
Cosa pensi del colore della cover? Eri d’accordo con questa esplosione di luminosità? L’artwork è tuo, ho letto, ma il design no.
Effettivamente può sembrare in contrasto con il resto del libro. “Oche” racconta del disagio dei tre giovani protagonisti, di una società che li respinge, che non ha posto per loro. Non c'è però solo questo, c'è un passaggio di consapevolezza, c'è il loro riscatto grazie alla scoperta dell'altro e di una propria valenza personale. Su questa base abbiamo scelto quella copertina. Ha partecipato la redazione intera alla discussione, perché quell'immagine non è convenzionale, come taglio, per una copertina. Alla fine è stata scelta proprio per la sua forza, per i colori. C'era un'altra copertina in lizza, più narrativa, ma questa era emotivamente più forte.
© Lorena Canottiere
Avevo letto in una precedente intervista che ami disegnare su carta. È sempre vero o sei poi passata alla tavoletta grafica? Qual è il tuo modo di procedere?
Uso la tavoletta grafica per pochissime cose, più estemporanee, e per colorare a computer, ma mi piace immensamente di più disegnare su carta. Amo l'attrito del pennino, del pennello, della matita sulla carta, gli odori, i tempi e gli imprevisti, le imperfezioni che rimangono sulla tavola. La fase del passaggio a china, ad esempio, è un momento che adoro e non vorrei privarmene. Si ottengono risultati molto differenti disegnando in modo “tradizionale” o a computer e penso si debbano usare i due metodi così, per ricercare mondi diversi, non escludendone uno in favore dell'altro.
Strip e graphic novel… per “consuetudine” la prima pare strumento ideale per l’umorismo, la seconda per storie di maggior spessore. E così è anche nel tuo caso. Il contrario è possibile? si può, soprattutto, far emozionare in poche vignette, o il dolore ha bisogno di tempi più lunghi?
La differenza sta soprattutto nella scelta del modo di raccontare, dal tono, ma se la satira è considerata ovunque, in tutto il mondo, pericolosa e scatena minori o maggiori reazioni di fastidio da parte di chi gestisce il potere, il motivo è proprio perché riesce a dire in maniera molto semplice e diretta ciò che filosofi, letterati, politici, etc, teorizzano in modo più profondo e sofisticato. Il concetto rimane invariato e a volte il potere emotivo ne esce addirittura rafforzato. Il fatto che la striscia susciti una risata non sta a significare assolutamente che racconti storie allegre: spesso ridiamo amaramente delle nostre vite, le nostre angherie, i nostri difetti e il fatto che la striscia le riesca a raccontare in maniera ridicola, ironica, non vuol affatto dire che non ci racconti un dolore. Ha un linguaggio irriverente e spesso per questo riesce ad essere più saggia ed arguta di un “opera drammatica” come ad esempio, riferendomi alla tua domanda, di una graphic novel.
Sempre a proposito di strip, in particolare legate al mondo dell’infanzia, si potrebbe dire che a volte sono vere e proprie maestre di vita. “Ogni volta che sento gli adulti parlare di cose inutili mi spavento”. Questa è una frase presa da Oche, ma la raccolgo per farti una domanda su Ça pousse. I bambini possono far riflettere di più?
“ça pousse” è un progetto nato per puro divertimento personale. Ho iniziato ridendo per ciò che dicevano mio figlio e i suoi amici e poi mi sono resa conto che c'era molto di più di una risata. I bambini descrivono il mondo, i nostri atteggiamenti, le abitudini, le convinzioni degli adulti in maniera arguta, saggia, dissacrante, senza tabù né compromessi. In questo modo ci portano a riflettere su cose che, da adulti, diamo per scontate, vere e irrefutabili, ma che non hanno nessun buon motivo per essere ritenute tali. Per questo motivo ho iniziato a disegnarle sotto forma di strisce, che prima hanno trovato posto sul blog omonimo e che sono approdate poi alla rivista ANIMAls e infine sono state raccolte in un libro (“Marmocchi”) che esce contemporaneamente in Italia, Spagna e Francia.
Proprio a proposito dell’iter dal blog a “Marmocchi”: quali differenze ci possono essere fra la lettura online, di un blog, nello specifico, e quella su carta?
La differenza grande tra pubblicare on line su un blog o su carta è il contatto diretto con i lettori. Attraverso il blog si può dialogare con i lettori attraverso i commenti ai post; scambiare pareri più approfonditi tramite mail (tante strisce mi sono state raccontate così, dai lettori di “ça pousse”). È possibile anche consigliare il link di siti amici, che ampliano conoscenze e arricchiscono lo scambio con il pubblico; ci sono i collegamenti diretti con i siti, o i profili dei lettori che seguono il blog... Ciascun blog è una finestra, un contenitore che ci permette di passare da un sito all'altro, da un racconto all'altro dandoci la possibilità di costruire un mondo nostro, più vasto, più completo. Il difetto della lettura on line è la possibilità di perdersi. Il libro su carta, viceversa, ci assicura una concentrazione assoluta su ciò che si sta leggendo, ci permette di calarci nella maniera più profonda possibile nel mondo di chi racconta: ciascun libro (su carta) racconta una vita, un'avventura. Pro e contro. Il blog fa sentire meno soli gli autori, c'è un riscontro facile col pubblico, mentre quando si pubblica un libro su carta, se non si incontrano i lettori alle presentazioni o lo si vede recensito, si ha la sensazione (e la paura) che nessuno lo abbia letto. Il libro su carta regala altri due aspetti per me fondamentali: il contatto fisico e il fatto che ti possa seguire ovunque. Un libro di carta lo si può leggere su una spiaggia deserta, in mezzo al bosco, pigiati nel caos dei mezzi pubblici, in coda in posta e di straforo ad un convegno noioso. Ti segue dappertutto e la sua lucina luminosa, da uscita d'emergenza, non si scarica mai- EXIT - e sei da un'altra parte.
© Lorena Canottiere
Per concludere: Cosa consiglieresti oggi a una donna che volesse intraprendere questa carriera?
A chi volesse cominciare a fare fumetti, uomo o donna (non è un ambiente sessista per cui lascerei da parte le distinzioni di genere, sperando di non doverle mai usare) consiglio di essere curiosi, di cibarsi di libri, cinema, teatro, mostre, ma anche del quotidiano che ci circonda, di essere coraggiosi e di mettere avanti ad ogni cosa il piacere del proprio lavoro; di ascoltare le proprie urgenze narrative e di divertirsi a realizzarle; e di prepararsi a “studiare” tutta la vita, perché fare fumetti vuol dire ricercare sempre ed evolversi di conseguenza.
giovedì 14 giugno 2012
iluoghidelcuore.it del FAI.
Campanilista come sono, cosa potevo scegliere se non Boccadasse?
Segnalatelo anche voi come Luogo del cuore.
Campanilista come sono, cosa potevo scegliere se non Boccadasse?
Segnalatelo anche voi come Luogo del cuore.
lunedì 27 febbraio 2012
Intervista a... Sergio Gerasi
SERGIO GERASI
Favole, musiche e grandi nasi
di Manuela Capelli - intervista uscita sul numero 16/2011 di Satura
Mettete insieme Milano, Allan Poe, Lovecraft e Sclavi, ma anche Kerouac, i poeti Beat, le favole classiche
e Chomet e avrete una parte dell’anima di Sergio Gerasi, esordio come autore completo con “Le tragifavole” (ReNoir Comics), una raccolta di racconti immersi in un’atmosfera al contempo iper-realistica e surreale. Laddove infatti, in ognuna delle storie a fumetti, la scenografia riporta a terra, fra le strade milanesi, i pensieri volano insieme ai protagonisti e ai loro grandi nasi. Come Il burattinaio, una sorta di Pinocchio all’incontrario, che vignetta dopo vignetta non solo reinventa la favola mantenendo le peculiarità di un genere oggi raro più che mai, ma evoca la musicalità e il senso del ritmo che costituiscono l’altra anima di Sergio, batterista e fondatore della rock band 200Bullets.
Prima di cimentarsi come autore unico, dando spazio a un personaggio nato durante l’edizione 2006 della 24 ore del fumetto (maratona fumettistica che prevede la realizzazione di una storia di 24 tavole in 24 ore), Sergio disegna, lavorando con grandi testate e con grandi teste: dagli inizi su “Lazarus Ledd” (Star Comics) ai disegni per “Jonathan Steele”, “Cornelio” (il fumetto di Carlo Lucarelli) e le ultime fatiche su “Dylan Dog”, è passato dalla trasposizione in fumetto di un racconto di Alan D. Altieri su testi di Tito Faraci, «Internationoir», e per ReNoir Comics, su testi di Davide Barzi, «G&G»: un omaggio al grande Giorgio Gaber, premiato come miglior graphic novel nell’edizione Full Comics 2010. In questi giorni, invece, escono alcune sue illustrazioni nel nuovo inserto culturale ‘La Lettura’ del Corriere della Sera. Ed è proprio dal suo eclettismo che partiamo.
Come disegnatore hai lavorato, da Steele a Cornelio a John Doe fino a Dylan Dog oggi, su una certa tipologia di personaggi. Come autore, per quanto tragiche, a delle favole. Sentivi la necessità di un cambio di registro?
Decisamente sì, ho spesso necessità di movimentare il mio lavoro che per natura è statico, almeno fisicamente. Il lavoro del disegnatore, o comunque in generale dell’autore di fumetti, è spesso strettamente le-gato al proprio studio, alla propria casa e alla propria scrivania. Uno strano ossimoro dato che al contrario, per farlo nel migliore dei modi, bisogna viaggiare molto con il pensiero. Ecco che quindi,
nel mio caso (ma sono certo sia una condizione comune per chi fa il mio stesso mestiere) quella scarica elettrica di fantasia che si prova iniziando un lavoro, magari su un personaggio nuovo, diventa vitale.
Nondimeno quando si inizia un nuovo lavoro, si parte dalla raccolta di documentazione, non solo visiva,ma anche nozionistica, sull’argomento che la storia tratterà: questo aspetto diventa un’occasione di studio che arricchisce. Cosa che non guasta mai. Nel mio caso specifico poi, dopo anni (una decina, ormai anzi
sono quasi undici) di lavoro su un genere popolare ben delineato e con certe regole, ho sentito la necessità “autoriale” di sperimentare un linguaggio narrativo a fumetti strettamente personale, sregolato e nato unicamente dal bisogno di raccontare delle storie a modo mio.
Alcuni autori dichiarano che i loro personaggi prendono vita da sé, mentre sembra che tu, anche perché ti auto-ritrai in certe tavole, tratti i tuoi come burattini, di cui condurre le esperienze…
Il carattere fondante delle Tragifavole è il travestimento, fatto con un velo fantastico posato sopra situazioni più o meno reali, situazioni avvenute realmente. Prendo spesso spunto da quello che mi succede per poi rielaborarlo con calma, con una visione più metaforica, più evocativa. Si può a ragione dire che i miei personaggi nascono dentro di me e uscendo se ne portano dietro un pezzo. Ecco perché non assegno mai dei nomi a questi personaggi. Ed ecco anche il perché hanno tutti una fisionomia simile, riconoscibile e con un denominatore unico: un naso importante.
Ecco, appunto, il naso: di Pinocchio, di Cirano, di Uno, nessuno, centomila, dei tuoi protagonisti. Citando il tuo libro, “Strano stile questo, e che nasoni!”…
“Del naso come è ovvio ci sarebbe molto da dire”, così scriveva Asor Rosa. Al di là di questo, quando per la prima volta partecipai alla 24 hic, mi decisi a realizzare qualcosa di completamente diverso dal solito. Dal mio solito. E lì ci fu una grande svolta nella mia testa. Questo stile, questi nasi e queste figure dinoccolate
si sono disegnate quasi da sole. Evidentemente le avevo lì, in un angolo della testa, ed è stato naturale prendere quella strada in un’ ottica di libertà creativa totale. Subito dopo il mio primo lavoro per la 24 hic i commenti furono costanti e insistenti, molto positivi comunque, e già mi identificavano con quello dei nasoni, i nasoni di Gerasi, ecc. l naso, nell’arredamento di un volto, è importantissimo, forse ancor più degli occhi per certi versi. È il naso che decide cosa farti notare di un volto, alle volte ti spinge a guardare gli occhi di una persona, alle volta la bocca, altre volte è più timido e ti presenta il volto nella sua interezza, altre volte è un naso orgoglioso che si mostra per primo, nella sua maestosità.
E poi come dimenticare Zanardi…
Fra le definizioni di favola, ci sono “narrazione con personaggi immaginari che contiene un ammaestramento morale” e “qualsiasi narrazione di fatti inventati”. A quale corrisponde di più il tuo libro?
Forse in parte ti ho già risposto. Credo che la mia visione stia vagamente nel mezzo, anche se con un velo di presunzione mi piacerebbe dire di avere una visione tutta mia delle favole, ecco perché le ho chiamate in quel modo. Quello che cerco sempre di evitare è un certo ‘ammaestramento’ (morale per di più) – non
mi piace mai generalizzare i concetti – tantomeno cercare di sopraelevare il mio giudizio sulle cose rispetto a quello del lettore. Non sono un maestro, che me ne scampino. Io cerco semmai di suggerire, evito per quanto mi è possibile un cer-to aspetto didascalico nei confronti dell’argomento trattato. Cerco cioè un dialogo con chi legge, non voglio mai dirgli che ilmio pensiero è la visione giusta delle cose, ecco perché nelle storie cerco di prendermi in giro e di smussare anche i personaggi nel momento in cui il frammento
narrativo è al culmine.
La solitudine, esistenziale, è uno dei temi delleTragifavole. Parlando invece della solitudine nel processo creativo: quanto è importante, stimolante, angosciante?
La solitudine è una condizione ricorrente della mia vita a tutti i livelli: sentimentale, sociale e lavorativo.
Ecco perché ci sono così affezionato (rido, nda). Tralasciando i primi due aspetti, la solitudine che caratterizza questo lavoro è una costante. Alcuni miei amici/colleghi la fuggono, si alleano in studi collettivi dove lavorano fianco a fianco. Io invece tento di sfruttarla nel migliore dei modi perché la solitudine è
un serbatoio di creatività molto generoso, se lo sai aprire e se sai frugarci dentro. Tutto sommato poi ho sempre pensato che potrei lavorare in un luogo pieno di gente ma nel momento in cui abbassi lo sguardo sul foglio bianco, sei inesorabilmente da solo, quindi tanto vale… ‘la solitudine non è mica una malattia, è
necessaria per star bene in compagnia’… e ancora…’un uomo solo è sempre in buona compagnia’… così diceva Giorgio Gaber, a cui sono molto legato.
Come fumettista, hai lavorato sia da solo sia insieme ad altri autori. Quali ritieni essere i punti di forza dell’una e dell’altra esperienza?
Personalmente non mi ritengo uno sceneggiatore di professione, anzi, non ho il mestiere per farlo. Ecco perché le Tragifavole, mio -per ora- primo e unico lavoro da autore completo, hanno un incedere così strano e sregolato (ma che comunque ha colpito molto i lettori, a quanto ho potuto constatare). Ti dirò che quindi lavorare con altri sceneggiatori –di professione- mi permette di concentrarmi unicamente sui disegni e tutto diventa più sciolto, morbido e naturale. Mi rilasso, insomma. Ebbene sì, il mio lavoro è disegnare, e disegnare mi rilassa: sono un privilegiato, lo so. Quando invece devo tirar fuori una storia dalla mia testa lo faccio con una certa dose dimalessere,ma non perché vado incontro a un qualche blocco creativo, anzi. È un malessere dettato dal fatto che scrivo quasi sempre e solo per tirar fuori un disagio. Le Tragifavole sono una serie di racconti nata nel corso di diversi anni, che piano piano son rimasti lì a galla, fino a che poi non ho più potuto lasciarli ‘stagnare’. Dovevano lasciare posto ad altro.
Scrivere i dialoghi di un fumetto e scrivere i testi di una canzone. Quali sono secondo te le principali differenze di due testi che necessitano entrambi di una certa sinteticità?
La prima e più evidente caratteristica della canzone è che è costruita quasi su uno schema matematico, dato che deve convivere con la musica. Ha necessità di rima (non sempre, fortunatamente) ma soprattutto di metrica (anche se alle volte si può ‘barare’). La sintesi che si attua nel testo di una canzone è più forte di quanto si debba fare in un fumetto, bisogna appellarsi a quella che Jannacci chiamava poetastrica. Anche i dialoghi che mettiamo nelle cosiddette nuvolette nascondono però delle insidie, anzi molte. Io ho cercato di evitarle, nelle Tragifavole, spostandomi più su un gergo quotidiano che, se noti, si distaccamolto da quanto
si legge normalmente nei fumetti popolari, come Dylan Dog per esempio, che proprio in questi giorni sto terminando di disegnare.
Facendo riferimento alla storia che hai scritto per la 24h del 2007, mi potresti dire quali sono le principali difficoltà del tuo lavoro?
Premetto che le difficoltà di una 24ore in cui bisogna fare 24 pagine di fumetto sono tantissime. Molte più del normale, ecco perché dopo ben tre edizione di fila (tra cui la storica prima di Milano nel 2005) ho
deciso di desistere. Come ti dicevo mi trovo costretto a scindere il lavoro di solo disegnatore da quello di autore completo. Quando disegno le difficoltà tecniche non sonomolte, anzi se mi trovo di fronte a qualche vignetta complicata o a qualche tavola ‘ardita’, questo diventa più uno sprono maggiore, piuttosto che una difficoltà. Al massimo può capitare di trovarsi in totale divergenza creativa con lo sceneggiatore, ma è difficile che questo avvenga. In quel caso subentra il fattore ‘professionalità’: questo è ilmio lavoro e cerco di farlo al meglio, anche quando non sono estasiato dalla storia. Analizzando invece le difficoltà da autore unico le cose si complicano: come ti dicevo non ho mestiere (nel senso antico del termine) nello scrivere, quindi o mi trovo di fronte a un’ispirazione viscerale oppure evito di farlo, di fare fumetti tutti miei. Molto spesso mi trovo di fronte a storie che non riescono ad arrivare ad un finale soddisfacente per cui rimangono lì, nel cassetto, o più verosimilmente in una cartella sull’hard disk del computer chiamata ‘storie senza fine’.
Rimangono lì perché prima o poi da qualche parte dovranno andare, di questo sono certo.Passando alla lavorazione, che tecnica hai utilizzato per le Tragifavole e da cosa è stata dettata la scelta monocromatica del seppia? È stata tua o concordata in fase editoriale?
Da qualche anno ormai sono passato all’utilizzo del pennello. Le Tragifavole, quindi, sono state realizzate (come tutto quello che faccio) con un pennello numero 2, in martora W&N e china nera. Non uso praticamente altri strumenti. Qualche pennarellino per piccoli ritocchi, eventualmente per le parti più delicate delle campiture, ma in linea di massima con un pennello e una boccetta di china posso fare più o meno tutto. Tutto quello che son capace di fare naturalmente. Non tutto in senso assoluto. Le tavole delle Tragifavole, in realtà, non sono in seppia, ma sono in china diluita (quindi nere e grigie). La decisione di virare il tutto al seppia è nata per differenziare questo lavoro da G&G, altromio libro (e di Davide Barzi) uscito pochi mesi prima, sempre per lo stesso editore, ReNoir Comics (libro dedicato al teatro-canzone di Giorgio Gaber). Il seppia in ogni caso dava alle storie un calore particolare, che mi ha subito convinto.
In una delle favole c’è una battuta che fa riferimento ai “fumetti di serie B”: quali sono secondo te?
Accidenti non mi costringerai a fare dei nomi. Mi sembrerebbe antipatico…
diciamo che ci sono alcuni fumetti che non hanno mai il coraggio di essere fumetti ma vorrebbero essere solo ‘narrativa’ e altri fumetti che non riescono nemmeno da lontano a sembrare ‘narrativa’. Ecco questi non mi piacciono mai molto… spero di non essere risultato troppo ermetico in questa mia risposta.
Favole, musiche e grandi nasi
di Manuela Capelli - intervista uscita sul numero 16/2011 di Satura
Mettete insieme Milano, Allan Poe, Lovecraft e Sclavi, ma anche Kerouac, i poeti Beat, le favole classiche
e Chomet e avrete una parte dell’anima di Sergio Gerasi, esordio come autore completo con “Le tragifavole” (ReNoir Comics), una raccolta di racconti immersi in un’atmosfera al contempo iper-realistica e surreale. Laddove infatti, in ognuna delle storie a fumetti, la scenografia riporta a terra, fra le strade milanesi, i pensieri volano insieme ai protagonisti e ai loro grandi nasi. Come Il burattinaio, una sorta di Pinocchio all’incontrario, che vignetta dopo vignetta non solo reinventa la favola mantenendo le peculiarità di un genere oggi raro più che mai, ma evoca la musicalità e il senso del ritmo che costituiscono l’altra anima di Sergio, batterista e fondatore della rock band 200Bullets.
Prima di cimentarsi come autore unico, dando spazio a un personaggio nato durante l’edizione 2006 della 24 ore del fumetto (maratona fumettistica che prevede la realizzazione di una storia di 24 tavole in 24 ore), Sergio disegna, lavorando con grandi testate e con grandi teste: dagli inizi su “Lazarus Ledd” (Star Comics) ai disegni per “Jonathan Steele”, “Cornelio” (il fumetto di Carlo Lucarelli) e le ultime fatiche su “Dylan Dog”, è passato dalla trasposizione in fumetto di un racconto di Alan D. Altieri su testi di Tito Faraci, «Internationoir», e per ReNoir Comics, su testi di Davide Barzi, «G&G»: un omaggio al grande Giorgio Gaber, premiato come miglior graphic novel nell’edizione Full Comics 2010. In questi giorni, invece, escono alcune sue illustrazioni nel nuovo inserto culturale ‘La Lettura’ del Corriere della Sera. Ed è proprio dal suo eclettismo che partiamo.
Come disegnatore hai lavorato, da Steele a Cornelio a John Doe fino a Dylan Dog oggi, su una certa tipologia di personaggi. Come autore, per quanto tragiche, a delle favole. Sentivi la necessità di un cambio di registro?
Decisamente sì, ho spesso necessità di movimentare il mio lavoro che per natura è statico, almeno fisicamente. Il lavoro del disegnatore, o comunque in generale dell’autore di fumetti, è spesso strettamente le-gato al proprio studio, alla propria casa e alla propria scrivania. Uno strano ossimoro dato che al contrario, per farlo nel migliore dei modi, bisogna viaggiare molto con il pensiero. Ecco che quindi,
nel mio caso (ma sono certo sia una condizione comune per chi fa il mio stesso mestiere) quella scarica elettrica di fantasia che si prova iniziando un lavoro, magari su un personaggio nuovo, diventa vitale.
Nondimeno quando si inizia un nuovo lavoro, si parte dalla raccolta di documentazione, non solo visiva,ma anche nozionistica, sull’argomento che la storia tratterà: questo aspetto diventa un’occasione di studio che arricchisce. Cosa che non guasta mai. Nel mio caso specifico poi, dopo anni (una decina, ormai anzi
sono quasi undici) di lavoro su un genere popolare ben delineato e con certe regole, ho sentito la necessità “autoriale” di sperimentare un linguaggio narrativo a fumetti strettamente personale, sregolato e nato unicamente dal bisogno di raccontare delle storie a modo mio.
Alcuni autori dichiarano che i loro personaggi prendono vita da sé, mentre sembra che tu, anche perché ti auto-ritrai in certe tavole, tratti i tuoi come burattini, di cui condurre le esperienze…
Il carattere fondante delle Tragifavole è il travestimento, fatto con un velo fantastico posato sopra situazioni più o meno reali, situazioni avvenute realmente. Prendo spesso spunto da quello che mi succede per poi rielaborarlo con calma, con una visione più metaforica, più evocativa. Si può a ragione dire che i miei personaggi nascono dentro di me e uscendo se ne portano dietro un pezzo. Ecco perché non assegno mai dei nomi a questi personaggi. Ed ecco anche il perché hanno tutti una fisionomia simile, riconoscibile e con un denominatore unico: un naso importante.
© immagini Sergio Gerasi
Ecco, appunto, il naso: di Pinocchio, di Cirano, di Uno, nessuno, centomila, dei tuoi protagonisti. Citando il tuo libro, “Strano stile questo, e che nasoni!”…
“Del naso come è ovvio ci sarebbe molto da dire”, così scriveva Asor Rosa. Al di là di questo, quando per la prima volta partecipai alla 24 hic, mi decisi a realizzare qualcosa di completamente diverso dal solito. Dal mio solito. E lì ci fu una grande svolta nella mia testa. Questo stile, questi nasi e queste figure dinoccolate
si sono disegnate quasi da sole. Evidentemente le avevo lì, in un angolo della testa, ed è stato naturale prendere quella strada in un’ ottica di libertà creativa totale. Subito dopo il mio primo lavoro per la 24 hic i commenti furono costanti e insistenti, molto positivi comunque, e già mi identificavano con quello dei nasoni, i nasoni di Gerasi, ecc. l naso, nell’arredamento di un volto, è importantissimo, forse ancor più degli occhi per certi versi. È il naso che decide cosa farti notare di un volto, alle volte ti spinge a guardare gli occhi di una persona, alle volta la bocca, altre volte è più timido e ti presenta il volto nella sua interezza, altre volte è un naso orgoglioso che si mostra per primo, nella sua maestosità.
E poi come dimenticare Zanardi…
Fra le definizioni di favola, ci sono “narrazione con personaggi immaginari che contiene un ammaestramento morale” e “qualsiasi narrazione di fatti inventati”. A quale corrisponde di più il tuo libro?
Forse in parte ti ho già risposto. Credo che la mia visione stia vagamente nel mezzo, anche se con un velo di presunzione mi piacerebbe dire di avere una visione tutta mia delle favole, ecco perché le ho chiamate in quel modo. Quello che cerco sempre di evitare è un certo ‘ammaestramento’ (morale per di più) – non
mi piace mai generalizzare i concetti – tantomeno cercare di sopraelevare il mio giudizio sulle cose rispetto a quello del lettore. Non sono un maestro, che me ne scampino. Io cerco semmai di suggerire, evito per quanto mi è possibile un cer-to aspetto didascalico nei confronti dell’argomento trattato. Cerco cioè un dialogo con chi legge, non voglio mai dirgli che ilmio pensiero è la visione giusta delle cose, ecco perché nelle storie cerco di prendermi in giro e di smussare anche i personaggi nel momento in cui il frammento
narrativo è al culmine.
La solitudine, esistenziale, è uno dei temi delleTragifavole. Parlando invece della solitudine nel processo creativo: quanto è importante, stimolante, angosciante?
La solitudine è una condizione ricorrente della mia vita a tutti i livelli: sentimentale, sociale e lavorativo.
Ecco perché ci sono così affezionato (rido, nda). Tralasciando i primi due aspetti, la solitudine che caratterizza questo lavoro è una costante. Alcuni miei amici/colleghi la fuggono, si alleano in studi collettivi dove lavorano fianco a fianco. Io invece tento di sfruttarla nel migliore dei modi perché la solitudine è
un serbatoio di creatività molto generoso, se lo sai aprire e se sai frugarci dentro. Tutto sommato poi ho sempre pensato che potrei lavorare in un luogo pieno di gente ma nel momento in cui abbassi lo sguardo sul foglio bianco, sei inesorabilmente da solo, quindi tanto vale… ‘la solitudine non è mica una malattia, è
necessaria per star bene in compagnia’… e ancora…’un uomo solo è sempre in buona compagnia’… così diceva Giorgio Gaber, a cui sono molto legato.
© immagini Sergio Gerasi
Come fumettista, hai lavorato sia da solo sia insieme ad altri autori. Quali ritieni essere i punti di forza dell’una e dell’altra esperienza?
Personalmente non mi ritengo uno sceneggiatore di professione, anzi, non ho il mestiere per farlo. Ecco perché le Tragifavole, mio -per ora- primo e unico lavoro da autore completo, hanno un incedere così strano e sregolato (ma che comunque ha colpito molto i lettori, a quanto ho potuto constatare). Ti dirò che quindi lavorare con altri sceneggiatori –di professione- mi permette di concentrarmi unicamente sui disegni e tutto diventa più sciolto, morbido e naturale. Mi rilasso, insomma. Ebbene sì, il mio lavoro è disegnare, e disegnare mi rilassa: sono un privilegiato, lo so. Quando invece devo tirar fuori una storia dalla mia testa lo faccio con una certa dose dimalessere,ma non perché vado incontro a un qualche blocco creativo, anzi. È un malessere dettato dal fatto che scrivo quasi sempre e solo per tirar fuori un disagio. Le Tragifavole sono una serie di racconti nata nel corso di diversi anni, che piano piano son rimasti lì a galla, fino a che poi non ho più potuto lasciarli ‘stagnare’. Dovevano lasciare posto ad altro.
Scrivere i dialoghi di un fumetto e scrivere i testi di una canzone. Quali sono secondo te le principali differenze di due testi che necessitano entrambi di una certa sinteticità?
La prima e più evidente caratteristica della canzone è che è costruita quasi su uno schema matematico, dato che deve convivere con la musica. Ha necessità di rima (non sempre, fortunatamente) ma soprattutto di metrica (anche se alle volte si può ‘barare’). La sintesi che si attua nel testo di una canzone è più forte di quanto si debba fare in un fumetto, bisogna appellarsi a quella che Jannacci chiamava poetastrica. Anche i dialoghi che mettiamo nelle cosiddette nuvolette nascondono però delle insidie, anzi molte. Io ho cercato di evitarle, nelle Tragifavole, spostandomi più su un gergo quotidiano che, se noti, si distaccamolto da quanto
si legge normalmente nei fumetti popolari, come Dylan Dog per esempio, che proprio in questi giorni sto terminando di disegnare.
Facendo riferimento alla storia che hai scritto per la 24h del 2007, mi potresti dire quali sono le principali difficoltà del tuo lavoro?
Premetto che le difficoltà di una 24ore in cui bisogna fare 24 pagine di fumetto sono tantissime. Molte più del normale, ecco perché dopo ben tre edizione di fila (tra cui la storica prima di Milano nel 2005) ho
deciso di desistere. Come ti dicevo mi trovo costretto a scindere il lavoro di solo disegnatore da quello di autore completo. Quando disegno le difficoltà tecniche non sonomolte, anzi se mi trovo di fronte a qualche vignetta complicata o a qualche tavola ‘ardita’, questo diventa più uno sprono maggiore, piuttosto che una difficoltà. Al massimo può capitare di trovarsi in totale divergenza creativa con lo sceneggiatore, ma è difficile che questo avvenga. In quel caso subentra il fattore ‘professionalità’: questo è ilmio lavoro e cerco di farlo al meglio, anche quando non sono estasiato dalla storia. Analizzando invece le difficoltà da autore unico le cose si complicano: come ti dicevo non ho mestiere (nel senso antico del termine) nello scrivere, quindi o mi trovo di fronte a un’ispirazione viscerale oppure evito di farlo, di fare fumetti tutti miei. Molto spesso mi trovo di fronte a storie che non riescono ad arrivare ad un finale soddisfacente per cui rimangono lì, nel cassetto, o più verosimilmente in una cartella sull’hard disk del computer chiamata ‘storie senza fine’.
Rimangono lì perché prima o poi da qualche parte dovranno andare, di questo sono certo.Passando alla lavorazione, che tecnica hai utilizzato per le Tragifavole e da cosa è stata dettata la scelta monocromatica del seppia? È stata tua o concordata in fase editoriale?
Da qualche anno ormai sono passato all’utilizzo del pennello. Le Tragifavole, quindi, sono state realizzate (come tutto quello che faccio) con un pennello numero 2, in martora W&N e china nera. Non uso praticamente altri strumenti. Qualche pennarellino per piccoli ritocchi, eventualmente per le parti più delicate delle campiture, ma in linea di massima con un pennello e una boccetta di china posso fare più o meno tutto. Tutto quello che son capace di fare naturalmente. Non tutto in senso assoluto. Le tavole delle Tragifavole, in realtà, non sono in seppia, ma sono in china diluita (quindi nere e grigie). La decisione di virare il tutto al seppia è nata per differenziare questo lavoro da G&G, altromio libro (e di Davide Barzi) uscito pochi mesi prima, sempre per lo stesso editore, ReNoir Comics (libro dedicato al teatro-canzone di Giorgio Gaber). Il seppia in ogni caso dava alle storie un calore particolare, che mi ha subito convinto.
In una delle favole c’è una battuta che fa riferimento ai “fumetti di serie B”: quali sono secondo te?
Accidenti non mi costringerai a fare dei nomi. Mi sembrerebbe antipatico…
diciamo che ci sono alcuni fumetti che non hanno mai il coraggio di essere fumetti ma vorrebbero essere solo ‘narrativa’ e altri fumetti che non riescono nemmeno da lontano a sembrare ‘narrativa’. Ecco questi non mi piacciono mai molto… spero di non essere risultato troppo ermetico in questa mia risposta.
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