lunedì 27 febbraio 2012

Intervista a... Sergio Gerasi

SERGIO GERASI

Favole, musiche e grandi nasi
 
di Manuela Capelli - intervista uscita sul numero 16/2011 di Satura
 
 
 
Mettete insieme Milano, Allan Poe, Lovecraft e Sclavi, ma anche Kerouac, i poeti Beat, le favole classiche
e Chomet e avrete una parte dell’anima di Sergio Gerasi, esordio come autore completo con “Le tragifavole” (ReNoir Comics), una raccolta di racconti immersi in un’atmosfera al contempo iper-realistica e surreale. Laddove infatti, in ognuna delle storie a fumetti, la scenografia riporta a terra, fra le strade milanesi, i pensieri volano insieme ai protagonisti e ai loro grandi nasi. Come Il burattinaio, una sorta di Pinocchio all’incontrario, che vignetta dopo vignetta non solo reinventa la favola mantenendo le peculiarità di un genere oggi raro più che mai, ma evoca la musicalità e il senso del ritmo che costituiscono l’altra anima di Sergio, batterista e fondatore della rock band 200Bullets.
Prima di cimentarsi come autore unico, dando spazio a un personaggio nato durante l’edizione 2006 della 24 ore del fumetto (maratona fumettistica che prevede la realizzazione di una storia di 24 tavole in 24 ore), Sergio disegna, lavorando con grandi testate e con grandi teste: dagli inizi su “Lazarus Ledd” (Star Comics) ai disegni per “Jonathan Steele”, “Cornelio” (il fumetto di Carlo Lucarelli) e le ultime fatiche su “Dylan Dog”, è passato dalla trasposizione in fumetto di un racconto di Alan D. Altieri su testi di Tito Faraci,  «Internationoir», e per ReNoir Comics, su testi di Davide Barzi, «G&G»: un omaggio al grande Giorgio Gaber, premiato come miglior graphic novel nell’edizione Full Comics 2010. In questi giorni, invece, escono alcune sue illustrazioni nel nuovo inserto culturale ‘La Lettura’ del Corriere della Sera. Ed è proprio dal suo eclettismo che partiamo.

Come disegnatore hai lavorato, da Steele a Cornelio a John Doe fino a Dylan Dog oggi, su una certa tipologia di personaggi. Come autore, per quanto tragiche, a delle favole. Sentivi la necessità di un cambio di registro?
Decisamente sì, ho spesso necessità di movimentare il mio lavoro che per natura è statico, almeno fisicamente. Il lavoro del disegnatore, o comunque in generale dell’autore di fumetti, è spesso strettamente le-gato al proprio studio, alla propria casa e alla propria scrivania. Uno strano ossimoro dato che al contrario, per farlo nel migliore dei modi, bisogna viaggiare molto con il pensiero. Ecco che quindi,
nel mio caso (ma sono certo sia una condizione comune per chi fa il mio stesso mestiere) quella scarica elettrica di fantasia che si prova iniziando un lavoro, magari su un personaggio nuovo, diventa vitale.
Nondimeno quando si inizia un nuovo lavoro, si parte dalla raccolta di documentazione, non solo visiva,ma anche nozionistica, sull’argomento che la storia tratterà: questo aspetto diventa un’occasione di studio che arricchisce. Cosa che non guasta mai. Nel mio caso specifico poi, dopo anni (una decina, ormai anzi
sono quasi undici) di lavoro su un genere popolare ben delineato e con certe regole, ho sentito la necessità “autoriale” di sperimentare un linguaggio narrativo a fumetti strettamente personale, sregolato e nato unicamente dal bisogno di raccontare delle storie a modo mio.

Alcuni autori dichiarano che i loro personaggi prendono vita da sé, mentre sembra che tu, anche perché ti auto-ritrai in certe tavole, tratti i tuoi come burattini, di cui condurre le esperienze…
Il carattere fondante delle Tragifavole è il travestimento, fatto con un velo fantastico posato sopra situazioni più o meno reali, situazioni avvenute realmente. Prendo spesso spunto da quello che mi succede per poi rielaborarlo con calma, con una visione più metaforica, più evocativa. Si può a ragione dire che i miei personaggi nascono dentro di me e uscendo se ne portano dietro un pezzo. Ecco perché non assegno mai dei nomi a questi personaggi. Ed ecco anche il perché hanno tutti una fisionomia simile, riconoscibile e con un denominatore unico: un naso importante.



© immagini Sergio Gerasi

Ecco, appunto, il naso: di Pinocchio, di Cirano, di Uno, nessuno, centomila, dei tuoi protagonisti. Citando il tuo libro, “Strano stile questo, e che nasoni!”…
“Del naso come è ovvio ci sarebbe molto da dire”, così scriveva Asor Rosa. Al di là di questo, quando per la prima volta partecipai alla 24 hic, mi decisi a realizzare qualcosa di completamente diverso dal solito. Dal mio solito. E lì ci fu una grande svolta nella mia testa. Questo stile, questi nasi e queste figure dinoccolate
si sono disegnate quasi da sole. Evidentemente le avevo lì, in un angolo della testa, ed è stato naturale prendere quella strada in un’ ottica di libertà creativa totale. Subito dopo il mio primo lavoro per la 24 hic i commenti furono costanti e insistenti, molto positivi comunque, e già mi identificavano con quello dei nasoni, i nasoni di Gerasi, ecc. l naso, nell’arredamento di un volto, è importantissimo, forse ancor più degli occhi per certi versi. È il naso che decide cosa farti notare di un volto, alle volte ti spinge a guardare gli occhi di una persona, alle volta la bocca, altre volte è più timido e ti presenta il volto nella sua interezza, altre volte è un naso orgoglioso che si mostra per primo, nella sua maestosità.
E poi come dimenticare Zanardi…

Fra le definizioni di favola, ci sono “narrazione con personaggi immaginari che contiene un ammaestramento morale” e “qualsiasi narrazione di fatti inventati”. A quale corrisponde di più il tuo libro?
Forse in parte ti ho già risposto. Credo che la mia visione stia vagamente nel mezzo, anche se con un velo di presunzione mi piacerebbe dire di avere una visione tutta mia delle favole, ecco perché le ho chiamate in quel modo. Quello che cerco sempre di evitare è un certo ‘ammaestramento’ (morale per di più) – non
mi piace mai generalizzare i concetti – tantomeno cercare di sopraelevare il mio giudizio sulle cose rispetto a quello del lettore. Non sono un maestro, che me ne scampino. Io cerco semmai di suggerire, evito per quanto mi è possibile un cer-to aspetto didascalico nei confronti dell’argomento trattato. Cerco cioè un dialogo con chi legge, non voglio mai dirgli che ilmio pensiero è la visione giusta delle cose, ecco perché nelle storie cerco di prendermi in giro e di smussare anche i personaggi nel momento in cui il frammento
narrativo è al culmine.

La solitudine, esistenziale, è uno dei temi delleTragifavole. Parlando invece della solitudine nel processo creativo: quanto è importante, stimolante, angosciante?
La solitudine è una condizione ricorrente della mia vita a tutti i livelli: sentimentale, sociale e lavorativo.
Ecco perché ci sono così affezionato (rido, nda). Tralasciando i primi due aspetti, la solitudine che caratterizza questo lavoro è una costante. Alcuni miei amici/colleghi la fuggono, si alleano in studi collettivi dove lavorano fianco a fianco. Io invece tento di sfruttarla nel migliore dei modi perché la solitudine è
un serbatoio di creatività molto generoso, se lo sai aprire e se sai frugarci dentro. Tutto sommato poi ho sempre pensato che potrei lavorare in un luogo pieno di gente ma nel momento in cui abbassi lo sguardo sul foglio bianco, sei inesorabilmente da solo, quindi tanto vale… ‘la solitudine non è mica una malattia, è
necessaria per star bene in compagnia’… e ancora…’un uomo solo è sempre in buona compagnia’… così diceva Giorgio Gaber, a cui sono molto legato.

© immagini Sergio Gerasi


Come fumettista, hai lavorato sia da solo sia insieme ad altri autori. Quali ritieni essere i punti di forza dell’una e dell’altra esperienza?
Personalmente non mi ritengo uno sceneggiatore di professione, anzi, non ho il mestiere per farlo. Ecco perché le Tragifavole, mio -per ora- primo e unico lavoro da autore completo, hanno un incedere così strano e sregolato (ma che comunque ha colpito molto i lettori, a quanto ho potuto constatare). Ti dirò che quindi lavorare con altri sceneggiatori –di professione- mi permette di concentrarmi unicamente sui disegni e tutto diventa più sciolto, morbido e naturale. Mi rilasso, insomma. Ebbene sì, il mio lavoro è disegnare, e disegnare mi rilassa: sono un privilegiato, lo so. Quando invece devo tirar fuori una storia dalla mia testa lo faccio con una certa dose dimalessere,ma non perché vado incontro a un qualche blocco creativo, anzi. È un malessere dettato dal fatto che scrivo quasi sempre e solo per tirar fuori un disagio. Le Tragifavole sono una serie di racconti nata nel corso di diversi anni, che piano piano son rimasti lì a galla, fino a che poi non ho più potuto lasciarli ‘stagnare’. Dovevano lasciare posto ad altro.

Scrivere i dialoghi di un fumetto e scrivere i testi di una canzone. Quali sono secondo te le principali differenze di due testi che necessitano entrambi di una certa sinteticità?
La prima e più evidente caratteristica della canzone è che è costruita quasi su uno schema matematico, dato che deve convivere con la musica. Ha necessità di rima (non sempre, fortunatamente) ma soprattutto di metrica (anche se alle volte si può ‘barare’). La sintesi che si attua nel testo di una canzone è più forte di quanto si debba fare in un fumetto, bisogna appellarsi a quella che Jannacci chiamava poetastrica. Anche i dialoghi che mettiamo nelle cosiddette nuvolette nascondono però delle insidie, anzi molte. Io ho cercato di evitarle, nelle Tragifavole, spostandomi più su un gergo quotidiano che, se noti, si distaccamolto da quanto
si legge normalmente nei fumetti popolari, come Dylan Dog per esempio, che proprio in questi giorni sto terminando di disegnare.

Facendo riferimento alla storia che hai scritto per la 24h del 2007, mi potresti dire quali sono le principali difficoltà del tuo lavoro?
Premetto che le difficoltà di una 24ore in cui bisogna fare 24 pagine di fumetto sono tantissime. Molte più del normale, ecco perché dopo ben tre edizione di fila (tra cui la storica prima di Milano nel 2005) ho
deciso di desistere. Come ti dicevo mi trovo costretto a scindere il lavoro di solo disegnatore da quello di autore completo. Quando disegno le difficoltà tecniche non sonomolte, anzi se mi trovo di fronte a qualche vignetta complicata o a qualche tavola ‘ardita’, questo diventa più uno sprono maggiore, piuttosto che una difficoltà. Al massimo può capitare di trovarsi in totale divergenza creativa con lo sceneggiatore, ma è difficile che questo avvenga. In quel caso subentra il fattore ‘professionalità’: questo è ilmio lavoro e cerco di farlo al meglio, anche quando non sono estasiato dalla storia. Analizzando invece le difficoltà da autore unico le cose si complicano: come ti dicevo non ho mestiere (nel senso antico del termine) nello scrivere, quindi o mi trovo di fronte a un’ispirazione viscerale oppure evito di farlo, di fare fumetti tutti miei. Molto spesso mi trovo di fronte a storie che non riescono ad arrivare ad un finale soddisfacente per cui rimangono lì, nel cassetto, o più verosimilmente in una cartella sull’hard disk del computer chiamata ‘storie senza fine’.

Rimangono lì perché prima o poi da qualche parte dovranno andare, di questo sono certo.Passando alla lavorazione, che tecnica hai utilizzato per le Tragifavole e da cosa è stata dettata la scelta monocromatica del seppia? È stata tua o concordata in fase editoriale?
Da qualche anno ormai sono passato all’utilizzo del pennello. Le Tragifavole, quindi, sono state realizzate (come tutto quello che faccio) con un pennello numero 2, in martora W&N e china nera. Non uso praticamente altri strumenti. Qualche pennarellino per piccoli ritocchi, eventualmente per le parti più delicate delle campiture, ma in linea di massima con un pennello e una boccetta di china posso fare più o meno tutto. Tutto quello che son capace di fare naturalmente. Non tutto in senso assoluto. Le tavole delle Tragifavole, in realtà, non sono in seppia, ma sono in china diluita (quindi nere e grigie). La decisione di virare il tutto al seppia è nata per differenziare questo lavoro da G&G, altromio libro (e di Davide Barzi) uscito pochi mesi prima, sempre per lo stesso editore, ReNoir Comics (libro dedicato al teatro-canzone di Giorgio Gaber). Il seppia in ogni caso dava alle storie un calore particolare, che mi ha subito convinto.

In una delle favole c’è una battuta che fa riferimento ai “fumetti di serie B”: quali sono secondo te?
Accidenti non mi costringerai a fare dei nomi. Mi sembrerebbe antipatico…
diciamo che ci sono alcuni fumetti che non hanno mai il coraggio di essere fumetti ma vorrebbero essere solo ‘narrativa’ e altri fumetti che non riescono nemmeno da lontano a sembrare ‘narrativa’. Ecco questi non mi piacciono mai molto… spero di non essere risultato troppo ermetico in questa mia risposta.

sabato 11 febbraio 2012

Sul numero 81 di Scuola di fumetto...

Sul numero 81 di Scuola di fumetto - con la novità ComicOut -
c'è anche la mia intervista a Sarah Glidden, l'autrice di "Capire Israele in 60 giorni (e anche meno)"
- ed. Rizzoli Lizard.
Un'intervista telefonica su Skype fra Italia e Canada, dove Sarah si trovava in quel momento,
per sapere qualcosa di più su di lei e sul suo libro.
Buona lettura!

immagini ©Sarah Glidden