martedì 19 aprile 2011

PIETRO SCARNERA. Pensieri di ieri, pensieri di oggi

Coinvolgente suo malgrado. L’opera prima di Pietro Scarnera, “Diario di un addio” (Ed. Comma 22), vincitrice nel 2009 della selezione regionale del Premio Komikazen (Festival del fumetto di realtà), cronistoria degli ultimi anni trascorsi accanto al padre in stato vegetativo, inserisce così – grazie a una lucida capacità di rendicontazione - il giovane Pietro nel novero degli autori maturi. Un testo forte, come solo un’esigenza poteva dettare, che mostra come la realtà di chi si ritrova nella  condizione di vita sospesa non sia quella del pacifico dormiente presentata dalla cinematografia classica. Lui, che nella vita si occupa di giornalismo e comunicazione, nel suo romanzo si esprime solo attraverso didascalie. Ed è proprio attraverso questo silenzio che riesce a incidere le coscienze obbligando a riflettere, che riesce a riunire due posizioni opposte – quella di Beppino Englaro e quella di Fulvio De Nigris – nella postfazione al libro. Graficamente naif, con un tratto che non commenta ma è tuttavia estremamente espressivo, Pietro ci accompagna nel suo percorso interiore, fino alla ricomposizione stessa dell’immagine del padre che, in un’intensa vignetta a piena pagina, era esplosa in mille frammenti.



Partiamo dalla scena delle barchette di carta: una flotta per difendersi dalle emozioni. Qual è stata la sfida più difficile da affrontare? Quali emozioni incarnavano e quali messaggi  mandavano a chi condivideva la tua situazione?
I cinque anni in cui mio padre ha vissuto in stato vegetativo sono stati tutti difficili, non saprei identificare una “sfida” in particolare... però c'è stato un momento in cui facevo fatica a reggere la situazione anche fisicamente: per circa un mese mio padre è stato ricoverato in un reparto di medicina generale, e non era un posto adatto a lui, anche gli infermieri non sapevano come comportarsi... così dovevamo starci sempre, a volte anche di notte. Quel periodo mi ha fatto capire quanto è importante un'assistenza qualificata per queste persone, quella che abbiamo trovato nella clinica di lungodegenza in cui alla fine siamo stati trasferiti. Senza una struttura del genere, non so quanto avremmo retto... Per quanto riguarda le barchette, in realtà mi sono reso conto solo lavorando al libro di cosa significavano: non penso chemandassero messaggi all'esterno, erano solo un piccolo stratagemma per non pensare, per tenere lemani occupate... poi ho scoperto che anche mia zia (la sorella di mio padre) ha questa mania delle barchette, si vede che è una cosa di famiglia!

“Evitavo di scrivere quello che provavo. Non sapevo cosa sarebbe venuto fuori”. Scrivere di una situazione che fa soffrire a volte non è catartico: è impossibile. Disegnare invece no. Come mai secondo te?
Quando qualcosa non va, il mio primo impulso è di mettermi a scrivere, e di solito mi fa sentire meglio. Nel periodo raccontato nel libro invece la scrittura non funzionava: qualche volta ci ho provato, ma mi faceva stare male, peggiorava le cose, e ho capito che non potevo scrivere finché quella storia la stavo vivendo. Anche disegnare mi faceva stare male, ma era una cosa che controllavo molto meno... in realtà io volevo disegnare altre cose, però spesso sulla pagina comparivano questi disegni piuttosto “disturbati”, i volti dei malati che vedevo intorno a me, che poi ho voluto inserire anche nel libro.

Il fumetto accompagnato da didascalie piuttosto che da balloon fa vivere appieno il dramma del silenzio, il tuo dramma personale. Come definiresti il peso parole/immagini? E com’è nata questa scelta, consapevolmente o spontaneamente?
È stata piuttosto spontanea: avevo moltissime cose da dire. Una delle cose che mi piace del Diario è che mi sembra molto “denso”, pieno di cose. Penso che sia importante per un fumetto: si impiega tanto tempo a realizzare qualcosa che poi si legge, nel caso del mio libro, in un quarto d'ora-venti minuti. Ecco, se almeno in quel quarto d'ora riesco a “catturare” il lettore, a dilatare almeno la sua percezione del tempo di lettura, allora ne vale la pena.


La semplicità del tratto ti ha permesso di essere più crudo rispetto all’aver usato delle parole nella descrizione. Cosa ti ha dato la forza di riaprire le ferite, sviscerarle e riprodurle nel lungo lavoro di un anno per scomporre e ricomporre appunti e disegni in un fumetto strutturato?
Bè, a un certo punto mi sono accorto che dovevo raccontare questa storia: tutti parlavano di coma e stato vegetativo, sui giornali, in tv, e quasi sempre a sproposito. E io non riuscivo a stare zitto, avevo proprio bisogno di raccontare... infatti mentre vivevo quel periodo non riuscivo a parlarne all'esterno, dopo non mi facevo problemi, lo dicevo a tutti, anche agli sconosciuti. Però una cosa è parlarne, un'altra è realizzare un libro, e soprattutto un libro a fumetti: avevo molti dubbi, così ho deciso di mandare alcune tavole a Komikazen (un concorso per giovani fumettisti dell'associazione Mirada di Ravenna): è un concorso piuttosto rinomato nel mondo del fumetto, e a me interessava avere un parere, sapere se secondo qualcun altro era una buona idea fare questo libro. E poi ho avuto anche un vero editore che mi ha seguito molto da vicino: in fondo io non avevo mai fatto niente del genere prima, ho dovuto imparare. All'inizio comunque volevo dare una testimonianza, pensavo di raccontare le cose in maniera molto oggettiva. Poi mi sono reso conto che dovevo ripercorrere tutti quei cinque anni, tutte le emozioni che avevo provato, perché il libro fosse sincero. È stato abbastanza doloroso rivivere e disegnare la prima metà della storia, mentre la seconda parte era ancora fresca nella memoria, quindi più facile da realizzare.

Non ti è mai venuta l’idea di far rivivere tuo padre in un fumetto? Quale tratto useresti in quel caso, descrittivo, evocativo, ironico? O addirittura sceglieresti un’altra forma di espressione?
No, non sento questa necessità, veramente. Anche nel Diario ho evitato di mostrare mio padre com'era “prima”, sarebbe stato troppo personale e poi non so se avrebbe aggiunto qualcosa... volevo solo raccontare come vive una persona in quelle condizioni e come reagisce chi gli sta vicino, in questo caso un figlio. Que-sto aspetto poteva avere una valenza generale, non solo personale, per cui ho “isolato” la mia esperienza in quella determinata situazione. È il motivo, per esempio, per cui mia mamma e mia sorella non compaiono nel libro. Quindi è un'autobiografia fino a un certo punto: quello che ho raccontato è tutto vero, ma ci sono anche altre parti di me che non sono finite nel libro.

Quando hai realizzato di aver prodotto il più alto contributo – per delicatezza e neutralità – al dibattito più attuale e doloroso della scelta della “fine vita”?
Io volevo provare a dare una base a questo dibattito, a dire “Ma sapete di cosa parliamo quando parliamo di stato vegetativo?”. Mi interessava questo, dare un'informazione corretta, poi ognuno è libero di costruirsi una sua idea. Per questo il libro doveva essere innanzitutto sincero, e infatti dentro ci sono tutti i miei dubbi e le mie paure: penso che questa onestà si percepisca, e mi ha fatto molto piacere che il libro sia piaciuto sia a Beppino Englaro che a Fulvio De Nigris, due persone che hanno opinioni opposte sull'argomento. Nel libro io non prendo posizione fra le due parti, ma è chiaro che ho una mia idea: penso che ognuno debba essere libero di scegliere, però la scelta dev'essere consapevole (quindi bisogna informarsi) e non deve essere dettata da fattori esterni, come la mancanza di strutture adeguate o di soldi (perché assistere queste persone in molti casi costa).

È più una forza intellettuale o emotiva che traduce una valanga di emozioni in un tratto così semplice, elegante ed efficace?
Penso che sia un mix di entrambe le cose... o semplicemente questo è il mio modo di disegnare, almeno lo è stato per questo libro. A rivederlo adesso mi sembra un tratto molto acerbo, anche un po' infantile, del resto
è il mio primo libro... però è anche giusto che sia così, visto che è la storia di un figlio.

Questo è un romanzo di formazione, di crescita, una storia che fa riflettere e imparare: in primis, un buon atteggiamento verso la vita. Qual è stato invece il romanzo che ha formato te? E quale il fumetto che ha ispirato il tuo tratto?
Forse sembrerà un po' strano, ma è ancora il primo libro che ho letto: il Grande Gigante Gentile di Roald Dahl, con le illustrazioni di Quentin Blake. È un libro che fa ridere, commuovere, spaventare e pensare allo stesso tempo, e poi ci sono dei disegni meravigliosi. All'epoca avevo 8 anni e abitavo in un paesino sugli Appennini in provincia di Bologna: un giorno aprì la biblioteca del paese e per Natale regalarono un libro a tutti i bambini: ame capitò il GGG! È una cosa di cui vado molto fiero, e penso davvero che se non l'avessi letto allora, adesso sarei una persona diversa. Per il Diario, però, sicuramente mi è stato molto utile “Il grande male” di David B., secondo me uno dei fumettistimigliori al momento: in questo libro racconta dell'epilessia del fratello, “il grande male” appunto, quindi mi ha aiutato a capire come si racconta la malattia. Graficamente però il disegno di David B. è molto diverso dal mio, e poi lui è molto più bravo. Mi è servito tanto anche leggere Primo Levi, uno dei miei scrittori preferiti, per capire come si raccontano cose delicatissime e personali con il giusto equilibrio fra distacco e partecipazione.

Com’è nata l’esigenza di esprimersi con il fumetto? E su quali temi era orientata questa scelta all’inizio? Per il futuro, invece, quali sono i tuoi progetti in questo campo?
Per me testi e disegni sono sempre andati di pari passo, anche se non ho mai studiato arte ho continuato a disegnare per i fatti miei, quindi mi viene naturale esprimermi così. In questo caso però usare il fumetto aveva anche un altro senso. Di solito una persona in coma viene raffigurata come una persona che dorme, è un'immagine standard che vediamo ogni giorno al cinema o in tv. Avevo anch'io in testa quest'immagine, e ho provato rabbia quando mi sono accorto che la realtà (almeno la realtà dello stato vegetativo) è totalmente diversa. Mi interessava rispondere a questa immagine, “far vedere” quello che ho visto io. Però era impossibile farlo con un disegno realistico, sarebbe stato offensivo. Quindi ho disegnato mio padre, e gli altri malati come lui, con uno stile il più possibile neutro. Poi questo è diventato il tema centrale del libro: ho potuto rendere anche graficamente la mia sensazione di “non riconoscerlo”, di non trovare corrispondenza fra la persona distesa nel letto d'ospedale e mio padre come me lo ricordavo io.
Attualmente sto iniziando a lavorare a un nuovo libro. L'argomento è ancora top secret, ma questa volta non sarà autobiografico. Nel frattempo vorrei fare qualche storia breve (come "I gatti degli inglesi", che ho pubblicato sul mio blog) e illustrazioni... qualche richiesta è già arrivata dopo la pubblicazione del Diario.

Infine, un tuo parere da professionista nel campo dell’editoria: cosa pensi del fumetto digitale?
Personalmente penso che il libro, e quindi anche il libro a fumetti, sia una tecnologia migliore del libro elettronico: costa molto meno, si può portare dovunque, se si rovina non è un dramma e leggere sulla carta è molto meno faticoso che leggere su uno schermo. Però non vuol dire che il digitale non offra opportunità. Per quanto riguarda il fumetto, penso che funzioni molto bene per le strisce: ad esempio Doonesbury, la strip di Garry B. Trudeau, ha un bellissimo sito e leggere ogni mattina la striscia del giorno non è affatto male. I vari blog e Tumblr invece sono perfetti per la promozione dei nuovi autori (ne ho uno anch'io, si chiama “Pensieri di ieri”, (http://pensieridieri.blogspot.com/)... in generale comunque sul web è tutto piuttosto rapido, per cui penso che anche nel campo del disegno siano più efficaci le vignette, le singole illustrazioni e le storie molto brevi. Ma per le narrazioni lunghe il libro è ancora insuperato.

Articolo uscito sul numero 13/2011 della rivista Satura